È il vecchio brodo di coltura ma c’è sempre chi giustifica

IL COMMENTO Il brodo di coltura è l’estremismo. Molti sono andati a lezione dagli insurrezionalisti attivi in Grecia

Negli Anni '70, gli «anni di piombo», si parlava, a proposito delle Brigate rosse e del terrorismo in genere, di «brodo di coltura». Con quell'espressione, presa in prestito dalle scienze naturali, si intendeva l'ambiente sociale e politico nel quale i terroristi si erano formati, si muovevano «come pesci nell'acqua», si organizzavano e, se necessario, si rifugiavano. Un ambiente non proprio complice ma, quanto meno, connivente. Ora apprendiamo che le migliaia (non poche centinaia) di giovani e giovanissimi che sabato scorso hanno devastato Roma erano ben organizzati, quasi militarmente, logisticamente attrezzati, avevano messo a punto una strategia complessa, molto preparati anche perché periodicamente vanno in Grecia per fare degli «stages di aggiornamento» sulla guerriglia urbana dai loro compagni anarco-insurrezionalisti ellenici. Bene: dove si riuniscono, che ambienti frequentano, dove mettono a punto le loro strategie, dove nascondono le armi? Insomma, qual è il loro brodo di coltura, dove sono i loro covi? In qualche oratorio, in un Rotary, in qualche sporting club? Certamente la Digos lo sa. E qualcosa crediamo di sapere anche noi: siamo infatti convinti, come in pratica sostiene la storica Elena Aga Rossi, che tra i recapiti preferiti di quella gente ci siano i centri sociali e che proprio i centri sociali, certi centri sociali, costituiscano il loro bro­do di coltura. Tutti i centri sociali, dunque, sono co­vi di black bloc e di anarco-insurrezionalisti? Cer­tamente no. Questi delinquenti frequentano rego­larmente e tranquillamente i centri sociali, si in­contrano e si riuniscono lì, sanno di poter contare sulla silenziosa acquiescenza degli altri frequenta­tori? Certamente sì. Quindi è lì che bisogna andare a cercare i violenti di professione. Ai quali il giustifi­cazionismo e il buonismo forniscono solo ottimi alibi per delinquere. Proprio oggi il Comune do­vrebbe avviare a soluzione l'annosa vicenda della sede del Leoncavallo. Forse non è il momento più opportuno, a meno che quel centro sociale non si decida a sottoscrivere un netto rifiuto della violen­za. Lo chiedeva già il sindaco Gabriele Albertini per avviare fin da allora un percorso di normalizza­zione. Non lo ottenne. E ora? Sono disposti quelli del Leonka a condannare chiaramente i fatti di Ro­ma e a ripudiare una volta per tutte qualsiasi for­ma di violenza? Se la risposta e no il Comune deve troncare la trattativa. Troppi segnali di tolleranza dell'illegalità sono già venuti da questa giunta. Se si evita di sgomberare le case occupate abusiva­mente con la scusa, pelosissima, dello «stato di ne­cessità ». Se si arriva a spiegare la devastazione di una città con la «comprensibile rabbia», provoca­ta, naturalmente, dal governo Berlusconi - come molti hanno fatto in queste ore, sui giornali e in te­levisione: ad esempio Lucia Annunziata domeni­ca scorsa a «In mezz’ora» su Rai 3. Se si considera irrilevante che, come avviene spesso a Milano, un corteo di poche centinaia di persone, quasi tutte dei centri sociali, imbratti i muri della città, sfondi vetrine, lanci barattoli di vernice e sacchi di spaz­zatura e anche qualche molotov contro banche o negozi, se si tollera tutto questo considerandolo quasi una prassi tacitamente accettata e comun­que un male minore, allora non possiamo meravi­gliarci di quello che è successo a Roma.

Lo abbia­mo scritto proprio il giorno prima: con la violenza si sa come si comincia e, purtroppo, si sa anche co­me si finisce. E dunque, chiudere i centri sociali? Mettiamola così: chiudere quelli che non esprimo­no un netto, chiaro e inequivocabile rifiuto della violenza. Potrebbe bastare.

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