Veronesi, una mitologia spicciola e periferica

Strano libro, l’ultimo di Veronesi, così pieno di tare. Deve essersene accorto l’autore, che lo fa precedere da una nota: pratica che lascia sospettare che Veronesi senta il volume come alieno (in genere si introducono i libri degli altri); oppure che sulla sua pubblicabilità siano stati espressi dubbi. La nota spiega che il manoscritto è rimasto nel cassetto più a lungo dei proverbiali nove anni suggeriti da Orazio.
Purtroppo non con tutti i romanzi il tempo è galantuomo. Se si vuole essere generosi, per Brucia Troia si può evocare la formula con cui Cocteau apostrofa un personaggio dei Ragazzi terribili: «Sa faiblesse était sa beauté». Se infatti il titolo corrusco spinge a immaginare chissà quali epiche fiamme, ciò che ci attende al di là della copertina è una storia sbadata, démodée, che pare il racconto di un racconto. Un’opera che si dispiega all’insegna di un depotenziamento di tutti i piani della narrazione.
Anonimo, per cominciare, lo sfondo: una baraccopoli di tiepido neorealismo delimitata dai binari del treno e da un fiume che potrebbe essere situata ovunque, dalla quale sono state rimosse le minime asperità vernacolari. Ozioso l’intreccio: assistiamo al progressivo impazzimento di un finto prete, padre Spartaco, che con materiali da bricofer si dedica alla costruzione di una statua fatta di tubi al neon che dovrebbe raffigurare la Madonna. La scultura è il nucleo spettacolare di un «santuario» che attira i fedeli come le mosche e ospita, oltre ad alcune perfide suore, una ventina di orfanelli. Parallelamente seguiamo i passi di due ragazzi dediti al furto e all’incendio doloso, Salvatore e Pampa: quando non li mangiano arrosto, straziano i gatti con la benzina per facilitare la diffusione delle fiamme nei capannoni industriali, in modo da truffare le assicurazioni. Ovviamente una simile vicenda non ha forza propria e non può che procedere a spinta, come un monopattino, grazie a lunghe e noiose digressioni narrative. Piantati in asso dalla trama, padre Spartaco, Salvatore e Pampa si ritrovano senza profondità, le loro azioni appaiono immotivate e i loro pensieri gratuiti, sicché si potrebbe sostenere che l’unico aspetto omerico di Brucia Troia sia la latitanza della psicologia. Per finire, è anaffettiva e pilatesca la voce dello stesso Veronesi; quando addirittura non lascia cuocere la sua grottesca vicenda di fede popolare nel suo stesso brodo, blandamente agiografico.
Tutto ciò impedisce che si parli di romanzo: siamo piuttosto di fronte a una novella dilatata, a un susseguirsi estrinseco di episodi: alcuni riusciti e anche molto letterari, come i passi sugli esordi criminali di Pampa, altri no.

Resterebbe la scrittura: nella quale Veronesi profonde la sua bravura e la sua maestria, e che invita ad ammettere che Brucia Troia è comunque un libro pieno di frasi ricche e tonde, le quali avrebbero meritato un più nobilitante destino.

Sandro Veronesi, Brucia Troia (Bompiani, pagg. 232, euro 16).

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