Il vescovo ucciso: la pista è terrorista

«Il vescovo Padovese è un martire della fede». L’arcivescovo Edmond Farhat, già nunzio apostolico in Turchia, è il delegato vaticano che ieri ha preso parte alle esequie del Vicario dell’Anatolia Luigi Padovese, assassinato a Iskenderun dal suo autista. A margine della cerimonia spiega al Giornale: «Guardando alla sua morte penso all’attentato in cui ha perso la vita nel 1996 in Algeria il vescovo di Orano Pierre Claverie».
Anche le autorità turche, che, conferma l’ambasciatore di Ankara presso la Santa Sede Kenan Gursoy, «stanno svolgendo indagini molto approfondite», non escludono alcuna pista. Sul caso della morte di Padovese, inizialmente presentato come un gesto di follia isolato, stanno infatti indagando i vertici dell’antiterrorismo e dell’intelligence turca. A Iskenderun si è recato in questi giorni una squadra dei servizi segreti guidato da Osman Çapali, responsabile della sezione antiterrorismo della polizia turca, insieme al vicepresidente del Dipartimento di intelligence dell’antiterrorismo, Hüseyin Özbilgin. La squadra è sul posto per indagare su attentati compiuti dall’estremismo curdo contro militari turchi, ma si occupa anche del caso Padovese. Troppi i casi di violenza avvenuti in città, troppo negativo il clima che si respira nei confronti dei religiosi e dei fedeli cristiani, al quale ha accennato ieri nel duomo di Milano, al termine dei funerali, l’arcivescovo di Smirne Ruggero Franceschini, con un appello ai media: «A chi si occupa di informazione: tenete aperta una finestra su questa terra, e sul dolore della Chiesa che la abita, siate voce di chi non ha neanche la libertà di gridare la propria pena. La verità e la giustizia, al di là di ogni umana convenienza».
Un grido, quello di Franceschini, che mostra come i vescovi di questa piccola Chiesa di minoranza, ma dalle origini antichissime, non credono al gesto isolato di follia. Lo stesso Padovese, in una delle prime lettere ai suoi fedeli dell’Anatolia scriveva che «tra tutti i Paesi di antica tradizione cristiana, nessuno ha avuto tanti martiri come la Turchia».
La cerimonia milanese è commovente e partecipata. Il cardinale Tettamanzi ha chiamato a raccolta il clero ambrosiano, accanto a lui ci sono 27 vescovi e 350 sacerdoti, ma ci sono anche cinquemila fedeli che gremiscono il duomo. In prima fila i parenti di Padovese, ma anche alcuni fedeli cattolici dell’Anatolia. Tettamanzi definisce il vescovo assassinato «vero discepolo di Cristo», che «ha dato il suo corpo e ha stretto un’alleanza nel suo sangue, offrendo tutto se stesso per l’annuncio del Vangelo e per la vita di coloro che gli erano affidati». Il cardinale ha definito la Chiesa dell’Anatolia «sofferente e provata», ha ricordato gli «incessanti sforzi» di Padovese per «costruire spazi di dialogo, e di incontro tra culture, tra religioni, tra gli stessi cristiani», un «vero costruttore di riconciliazione e di pace». E ha sottolineato il legame ancora più profondo che unisce la Chiesa ambrosiana e turca: «Vogliamo raccogliere il grido, o meglio il lamento, che si leva da voi e dalla vostra terra. Vogliamo, come Chiesa ambrosiana, insieme a tutte le comunità cristiane, accogliere e affrontare la sfida di essere sempre più coscienti della nostra identità cristiana e di saper offrire, senza alcuna paura, sempre e dappertutto, la testimonianza di una vita autenticamente evangelica».


Viene data lettura del telegramma del cardinale Bertone che esprime la vicinanza del Papa, il quale ricorda la «generosa testimonianza» di Padovese. E l’ex nunzio Farhat, a messa finita, commenta: «Accade sempre così, ammazzano sempre le colombe, gli uomini del dialogo...».

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