Viaggio sui binari dell’1 verso la Milano del futuro

La linea tramviaria 1 congiunge due vecchi borghi inglobati nella città: Villapizzone e Greco. Il percorso si snoda lungo alcune direttrici di grande interesse, che mostrano con chiarezza come tutta la città, in qualche modo, sia fatta di «borghi», e cambi spesso orientamento a seconda del «centro» intorno al quale questa o quella zona si orientano. Un altro aspetto molto interessante dell’1 è che percorre alcune zone o vie lungo le quali si giocherà gran parte dell’immagine di Milano nel futuro.
Partito da Piazza Castelli, dopo aver percorso per un buon tratto via Mac Mahon, il tram raggiunge Corso Sempione, che è uno dei punti più problematici della nostra città. A nessun milanese sarebbe mai venuto in mente di sventrare alcuni importanti quartieri per costruire questo enorme viale. La vecchia via del Sempione esisteva già (Via Canonica, Via Piero della Francesca), ma i Francesi vollero ampliare l’inizio della strada che portava nel loro Paese imponendo alla città un modello urbanistico che non le apparteneva. L'errore si sarebbe potuto rimediare se lo stesso viale costruito non presentasse difetti congeniti pressoché inguaribili.
Perché Corso Sempione non ha avuto lo stesso destino degli altri grandi passeggi (o «strusci») europei come Champs Élysées, Passeig de Gracia, Unter Den Linden e così via? La risposta più semplice, la prima della lunga serie di risposte, è che Corso Sempione è troppo lungo: quasi due chilometri. Un viale così ha senso se è lungo al massimo un chilometro. Finora la città non è stata in grado di riempire uno spazio così grande con un progetto adeguato: il viale è una grande spianata contornata da tanti pezzettini di progetti diversi: troppo grande, troppo lungo per Milano. Non doveva esistere. Ma siccome esiste, le sue stesse dimensioni e la sua posizione lo trasformano nel centro naturale della più grande scommessa sul futuro di Milano. L’immagine della nostra città dipenderà in gran parte dal destino di Corso Sempione.
L’asse del viale va poi a piantarsi in piazza Sempione, che è il cocuzzolo del più centrale tra i parchi milanesi. La zona è chic ma d'uno chic vecchile, con edifici che raccontano storie di solide famiglie, di vizi privati, di fortune e tracolli. Il patriarca costruttore vuole imprimere il proprio segno sull’edificio, che spesso risulta bizzarro, ma non lo salva dalla dissipazione dei capitali. Resta qualche memoria degli antichi fasti nell’architettura dei piani alti, nella sovrabbondanza di terrazze, nelle torrette di cui Milano è ghiotta - non si sa se per un desiderio individualista di isolamento o perché da una torretta si può sbirciare meglio nelle case altrui (il familismo produce spesso il voyeurismo). Oggi, però, questo è un paese per vecchi nonostante la recente promozione dell’Arco della Pace a capoluogo del neofighettume urbano.
Percorriamo poi via Pagano per girare in via Vincenzo Monti. Fin qui l’orientamento della città non è cambiato: siamo sempre nel vecchio progetto francese - con la differenza che far bella via Vincenzo Monti era più facile. La Francia ci accompagna ancora fino in Piazza Cadorna e lungo Foro Bonaparte, poi finalmente la abbandoniamo per la direttrice comacina che ci conduce in Piazza Cordusio. Piazza Scala, Via Manzoni: le lascio agli estimatori. Ma in Piazza Cavour, abbandonata la salsamentaria Via Manzoni l’1 guadagna una delle più belle vie milanesi, se non la più bella: Via Turati. Basterebbe un lifting di buon gusto per dare il giusto valore a questo capolavoro del Novecento Milanese, scritto nella lingua di Giò Ponti e terreno di battaglia tra i due maggiori architetti milanesi del secolo scorso: Giò Ponti, che gioca in casa, e Giovanni Muzio, che domina l’incrocio don Via Moscova con la sua celebre e bellissima «Ca’ Brutta» (come la chiamò lui stesso). Come Brunelleschi e Donatello nella Sacrestia Vecchia di Firenze, Ponti e Muzio si fronteggiano qui in un duello che non è tanto l’opposizione di due scuole di pensiero quanto di due caratteri umani diversi.
Ci muoviamo, qui, in un altro grande progetto: quello che si sviluppa intorno ai due poli di Piazza Repubblica, che è la più grande piazza di Milano, e della Stazione Centrale, che è, si può dire, la seconda cattedrale della città. L’1 su muove sul margine di questo progetto - piegando verso Porta Venezia lungo la vecchia circonvallazione spagnola - ma poi vi rientra in pieno per le vie Lazzaretto e Settembrini, quest’ultima simile a una bella donna un po’ agée offesa dagli acciacchi di una vita tormentata. L’1 fila poi dritto attraversando Piazza Caiazzo e imboccando un'altra via interessante, la lunga Via Venini, che inizia condividendo l’architettura austera che circonda la Stazione Centrale per poi sfarinarla, ma senza cambiare stile, man mano che si procede verso Greco. Via Venini offre un esempio sintetico del movimento dell’intera città man mano che si allontana dal suo centro - che non è solo centro geometrico, ma anche centro di progetti urbanistici succedutisi nel tempo, spesso intrecciati tra loro ma soprattutto rivelatori di un pensiero compiuto: i nomi degli architetti, i loro stili, le loro scuole di pensiero, il loro apporto alla storia se ne stanno ben attaccati ai palazzi del centro.
Mentre la città si muove verso la periferia, in quella zona di mezzo, un po’ strana, dove il centro è ormai lontano ma la «nuova» periferia, quella moderna, quella delle ristrutturazioni recenti, delle sedi di società e degli showroom, non è ancora iniziata. Qui le scuole architettoniche si annacquano via via, le memorie degli stili permangono ma velate, fino a che tutti gli stili e le scuole diventano un solo non-stile e una sola non-scuola. Senza perdere la sua bella dignità, via Venini e la sua architettura popolare milanese si riempiono di negozi stranieri, con prevalenza di arabi e cinesi: i primi trattano perlopiù generi di prima necessità per i conterranei residenti, i secondi tendono a conquistare la leadership di alcune fette di mercato: parrucchieri, piccola ristorazione. Si tratta, evidentemente, di metodi molto diversi che si trovano, qui, quasi casualmente a confronto: più semplice quello arabo, frutto della necessità, più politico quello cinese, dove s’intravede un disegno, una strategia.


Esco dal mio viaggio con la persuasione che un passo importante si sta avvicinando, per la nostra città: quello in cui le diversità etniche e culturali che la compongono, e che ne rinnovano la popolazione di decennio in decennio, possano trovarsi al centro di un progetto condiviso (per tutti ma anche di tutti) capace di interpretare i grandi eventi che la attraversano trasformandoli in ipotesi di vita per tutti. Leggo i proclami dei candidati sindaci e, per ora, non vedo nulla di tutto questo.

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