In viaggio sulla «71» alla ricerca del mare di Milano

Per raggiungere il punto di partenza del mio viaggio odierno devo percorrere un lungo tratto della linea regina di Milano, che non potrebbe mai essere destinataria di un articolo ma solo di un libro: la «90-91».
La 91 è sempre piena di gente che mangia, gente che grida, i matti non mancano quasi mai e mille odori, specialmente la mattina presto, la invadono, persistenti: aglio, cipolla, rose, tutti mescolati. Oggi c'è odor di vomito, e infatti la folla che si stringe lascia uno spazio vuoto intorno a una chiazza disgustosa già alla vista.
Nei posti adiacenti alla chiazza non siede nessuno, tranne un ragazzino arabo sui 13-15 anni. Parla al telefono con grande serietà, il suo tono è perentorio. E' longilineo, piuttosto bello, ben pettinato. La faccia e il tono della voce sono a dir poco tetri, e lasciano immaginare derive di potere, probabilmente è figlio di qualche capo, di qualche ras: un piccolo adulto cattivo. Ma a lui di sedersi vicino al vomito non importa nulla. In tutto questo - dico a me stesso - c'è qualcosa da imparare in fretta.
Giunto alla fermata «Romolo» scendo, attraverso viale Liguria, supero il sottopassaggio ferroviario che è per me una specie di porta d'ingresso e mi trovo, dopo un centinaio di metri, in Largo Tazio Nuvolari, un ampio parcheggio circondato da edifici che sembrano messi lì a caso. Ce n'è di ogni, edifici commerciali, condomini, una casa d'abitazione nuova che sembra la nostalgia di uno yacht, e poi recinti simili a pollai, e muri pieni di graffiti.(Sui graffiti: sono vent'anni che li vedo sui nostri muri, e sono sempre gli stessi, mai una novità, mai un'invenzione, mai un piccolo colpo di genio. Cari graffitari, se volete essere chiamati artisti che ne direste di evolvervi un po'?)
Siamo a due passi dallo Iulm e soprattutto da una delle vie più congestionate di Milano, e già la città si rarefà, diventa incerta.
La «71», che mi sta aspettando, compie un percorso molto interessante. Dopo aver costeggiato il Lambro Meridionale sbuca in viale Famagosta percorrendolo fino in piazza Miani, poi si addentra nei quartieri Barona, S. Ambrogio e Cascina Bianca per tornare al metrò Famagosta, dove conclude la sua corsa. Insieme alla «74» collega questi quartieri simili a isole alla terraferma della città: Famagosta, Romolo, General Cantore.
Via Santander, che imbocchiamo dopo poche curve, si sviluppa sui due lati del Lambro Meridionale, un antico canale che parte dal Naviglio Grande e raccoglie una parte delle acque dell'Olona per poi piegare verso est e ricongiungersi con il Lambro.
Da via Santander si sbuca in viale Famagosta, la cui caratteristica, un po' misteriosa per qualunque non-milanese, è quella di apparire sempre più vecchia quanto più il suo percorso, rettilineo, sembra allontanarsi dalla città. Fino a piazza Miani, che nonostante la sua posizione al vertice sudoccidentale della città è simile a una delle tante piazze più centrali, con qualche edificio signorile e altri popolari di grande dignità (vecchia grande Milano con la sua borghesia in orecchini e stola di visone, fermamente attestata sul territorio, e il suo proletariato che custodisce negli armadi il vestito della festa per la messa o per la rivoluzione!)
Viene poi via Voltri, pochi edifici su un lato e nessuno sull'altro, a ricordarci, come già constatato, che la forma a fisarmonica della città non risparmia né la zona settentrionale, più fitta di vecchi borghi e antichi comuni, né quella meridionale, che come una lingua di terra - già da qui lo avvertiamo - si prepara a incontrare il suo mare.
Superato l'Ospedale San Paolo dall'architettura fragile e azzurrognola fatta apposta per ricordarci che la vita è breve e la vecchiaia incombe, ci immergiamo nel Quartiere S. Ambrogio, che si presenta a noi con il sembiante di un ampio piazzale alberato dominato dall'architettura gradevole della chiesa parrocchiale di S. Giovanni Bono.
La chiesa, preceduta da una non meno gradevole fontana, fu edificata nel 1966 ed è opera dell'architetto Arrigo Arrighetti, che fu il progettista per conto dell'Iacp di tutto il quartiere. Al suo interno, tra vetrate astratte, spicca una formella si direbbe in terracotta dipinta, incorniciata sontuosamente in marmo, che racconta la storia del quartiere. Si tratta di un'immagine della Madonna mentre allatta il Bambino.
«Questa Madonna - dice il cartello che l'accompagna - fu posta alcuni secoli or sono sul mulino S. Ambrogio sito ove ora sorge il quartiere alla quale ha dato il nome. Viene qui ricollocata a testimonianza della perpetuità della fede». Segue data: ottobre 1966.
La chiesa, edificata in cemento armato come tutto il quartiere, è la testimonianza di un'età dominata da questo materiale e dall'illusione di aver scoperto qualcosa che fosse al tempo stesso docile, resistente ed eterno. Ma gli anni ci hanno dimostrato che il cemento armato non è eterno e che, se non viene continuamente riparato, contribuisce massicciamente al degrado urbano. Basta guardare gli scalini del sagrato.
Il quartiere, composto all'origine da quattro caseggiati, si è molto ingrandito negli anni presentando architetture non sempre omogenee tra loro e raggruppando diversi nuclei contraddistinti da altrettanti nomi (S. Ambrogio I e II, Barona, Cascina Bianca).
Anche qui, come già notato a proposito di altri quartieri milanesi, si apprezza l'attenzione dei primi progettisti affinché la vita degli abitanti (concepiti ancora come esseri umani in carne e ossa) fosse il più comoda possibile, e che il quartiere potesse offrire allo scopo adeguati servizi - chiesa, farmacia, ufficio postale e qualche negozio -. Ma anche qui si deve osservare come a quel giusto impulso non si sia fatto nessun seguito di qualche peso nel momento in cui il quartiere ha cominciato a crescere. E' quello che ho chiamato «il crollo delle aspettative»: il momento in cui chi governava la città ha cominciato a parlare una lingua diversa rispetto a quella della gente, seguendo i propri ragionamenti astratti e dimenticando - forse non ritenendolo molto importante - l'uomo.
Ma qui Milano finisce, ed è bene perciò smetterla anche con le polemiche. Sono in via Depretis. L'orizzonte ci presenta qualche cascinale riattato da chi si può permettere una vita tra campagna e città, poi è tutto campi, rogge, pioppi. Parco Sud, Parco delle Risaie, Parco della Vettabbia. Il Lambro Meridionale rispunta qui, canalizzato, attraversato da diversi ponticelli. L'arato, situato un metro più in basso rispetto allo zoccolo su cui sorge la città, somiglia a un mare le cui onde miti vengano a infrangersi piano sull'arenile. Da un lato i condomini, dall'altro il mare.
E' un'immagine bellissima, alla quale le mie fotografie non possono rendere giustizia. La speranza (da difendere col fucile) è che la città impari a godere più e meglio di questa bellezza inaspettata, di questa quiete, e non ceda alle sirene che invocano nuovi cementi. Il Parco Sud, dalle Risaie a Chiaravalle, da Rozzano a S.

Giuliano passando per Lacchiarella, è un bene inestimabile per Milano. Deve diventare un posto dove la gente va a passeggio il sabato e la domenica, dove si possa cenare o passare ore piacevoli senza che un ambiente che il mondo ci invidia debba seguire la sorte di altri.

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