Vigile ucciso, la caccia continua Nel mirino c’è il secondo nomade

Vigile ucciso, la caccia continua Nel mirino c’è il secondo nomade

La caccia al complice di Goico Jovanovich non si è mai fermata. Otto giorni fa il dirigente della squadra mobile Alessandro Giuliano, durante la conferenza stampa seguita la cattura, al confine tra Ungheria e Serbia, dello slavo assassino del vigile di quartiere Nicolò Savarino, ci tenne a sottolineare che non c’erano «altri mandati di cattura». Tuttavia il 28enne nomade sinto che, il 12 gennaio, al momento dell’investimento mortale alla Bovisa, era seduto sul sedile passeggero, era e resta nel mirino degli investigatori. È accusato infatti di concorso in omicidio volontario. Quel pomeriggio i testimoni lo videro fin troppo chiaramente quando - negli attimi febbrili che seguirono in via Varè l’abbandono del corpo dilaniato del povero Savarino, staccatosi dal paraurti della vettura dopo essere stato trascinato per 300 metri - seduto accanto a Jovanovich, il giovane scese dal Suv, giunto in via Catone, per sbarazzarsi della bicicletta del vigile di quartiere che non si staccava da sola dalla vettura. Fu lui a lanciare la carcassa della bici davanti alla parrocchia di S. Giovanni e Paolo per poi risalire in auto e fuggire insieme all’assassino del vigile.
«Abbiamo ricostruito una sorta di mappatura di denunce e controlli fatti a Jovanovich negli ultimi due anni sempre a bordo dell’ormai famigerato Bmw X5 color bronzo - spiega la polizia locale -. Tutte le volte che lo slavo è stato fermato in compagnia di qualcuno, insieme a lui c’era proprio questo nomade sinto. Da ottobre la vettura era stata intestata a una ragazza madre italiana, una 40enne che vive al Dergano. Jovanovich, probabilmente, aveva avuto già troppi guai a bordo di quella vettura e cercava di limitare i danni. Non dimentichiamo che in macchina, durante i controlli, gli erano stati trovati degli arnesi usati per scassinare serrature e cassaforti, che era stato denunciato più volte per guida senza patente anche dai noi della polizia locale. La prestanome gli serviva per sgravarsi da una serie di responsabilità, dai guai che uno come lui - uno slavo con molti alias e dei precedenti a carico - voleva evitare. Il Suv, però, continuava a usarlo. Da ottobre non aveva certo cambiato abitudini. E, come abbiamo scoperto, neanche compagnie».
Le indagini proseguono serrate e silenziose. Dopo l’estradizione concessagli una settimana fa dalle autorità ungheresi Jovanovich dovrebbe arrivare giovedì all’aeroporto di Linate. Non è un mistero che la sua cattura sia da imputarsi, oltre alla tenacia degli investigatori, soprattutto alle intercettazioni telefoniche. Non si esclude quindi che la rete di protezioni che ha aiutato lo slavo a fuggire subito dopo l’omicidio così in fretta da permettergli di raggiungere in poche ore il confine serbo-ungherese con una vettura «pulita», del denaro (molto) e dei documenti falsi ma perfettamente riprodotti, quel meccanismo innescatosi così repentinamente per lui potrebbe aver permesso anche al suo complice di allontanarsi, magari all’estero. Su questo gli inquirenti non hanno dubbi al punto che la Procura ha aperto un fascicolo con l’ipotesi di favoreggiamento (per ora a carico d’ignoti) proprio per avere la possibilità d’incastrare coloro che hanno dato una mano tanto concreta a Jovanovich affinché potesse farla franca.
Nelle prime ore dell’inchiesta, subito dopo il ritrovamento del Suv e l’identificazione dei suoi passeggeri, anche il telefono del nomade sinto venne messo sotto intercettazione. Quindi l’attenzione degli investigatori si è concentrata su Jancovich, il vero responsabile del crimine: solo lui aveva tutta la convenienza a sparire il più in fretta possibile.

E quando, sempre con le intercettazioni, si è scoperto che era disposto a pagare ben 200mila euro alla prestanome a cui risultava intestato il Suv per farsi coprire, si è capito che era l’uomo da catturare subito. Il suo complice, però, non può illudersi di averla fatta franca.

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