Villa Borghese, generazioni d’arte allo specchio

Uno specchio-opera che riflette un’altra opera di specchio, in un continuo moltiplicarsi di immagini e riflessi che indagano il soggetto attraverso il mezzo che lo rappresenta: lo specchio appunto, con i suoi «ritratti» inversi. L’immagine, è proprio il caso di dirlo, riflette su se stessa e sul suo doppio, ma più ancora sul potere immaginifico dell’«aldilà», inteso come l’«attraverso lo specchio» di carrolliana memoria, nella mostra «Speculazioni d’artista.
Quattro generazioni allo specchio», collettiva di oltre trenta artisti dedicata allo specchio nell’arte, ospitata fino al 4 ottobre al museo Carlo Bilotti a Villa Borghese. Tra mito e favola, estetica e psicologia, rimandi classici e avanguardia, da Tano Festa a Leandro Erlich, da Michelangelo Pistoletto a Chiara Dynys, un percorso che dagli anni Sessanta - quando lo specchio fece il suo «debutto» ufficiale come medium artistico - giunge fino ad oggi, nel tentativo di descrivere l'evoluzione che ha portato il «mezzo» a diventare il vero protagonista della scena, come oggetto e soggetto. Con i suoi segreti e le sue affascinanti magie. Così «Vanitas» di Mat Collishaw nasconde dietro la superficie l’immagine di un teschio, svelandola solo al movimento dell’osservatore: la bellezza si fa riflesso della vanità, la vita della morte, il movimento della stasi. Il doppio diventa metà in «Aerei» di Fabio Viale, che sembra dare concretezza al dubbio dell’«oltre», invitando lo spettatore a domandarsi da quale lato della superficie sia il mondo reale - o il migliore - per poi giungere alla conclusione che non può che essere nel mezzo, laddove l’aereo sceglie la sua rotta. Lo specchio si rompe ma non si infrange in «Broken Mirror» di Pistoletto. Rivela la sorpresa del colore e proietta ombre in «Cromostruttura speculare a elementi quadri» di Getulio Alviani. Mostra le sue bugie in «Falso senso di sicurezza» di Filippo Centenari, dove uno stormo di uccelli «sbatte» contro l’orizzonte. Ne valorizza le contraddizioni pure Leandro Erlich, che ha voluto realizzare la sua opera appositamente per la mostra: «El Vecino» è una casa le cui finestre mostrano l'immagine dello spettatore spostata rispetto al punto di osservazione, come se il soggetto spiasse se stesso, raccontando così la diffidenza verso l’«estraneo», che è fuori ma anche dentro di noi. La superficie può essere ingannatrice - d’altronde, fu il riflesso a tradire Narciso -, come in «Tutto Niente» di Chiara Dynys, opere diverse poste una di fronte all’altra a fondere i contrari, e può aiutare ad affinare osservazione e presa di coscienza, come in «Allegoria della dignità» di Enzo Mari.

Può fondere il reale e l’irreale, soggetto e oggetto, interno e esterno, forse interiorità e esteriorità, come in «Buco» di Luciano Fabro, intarsio di specchio e vetro. Ma può perfino scomparire del tutto, diventando, per paradosso, più evidente, come in «Specchio» di Maurizio Arcangeli, che libera soggetto e riflesso. E, soprattutto, riflessioni.

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