Da villa Jucker alla Mercedes Milano razionalista

Schivi protagonisti di una città costruita in maniera frammentaria dove il tema del «residenziale» ha compromesso i caratteri del centro storico di Milano, mentre gli stabilimenti industriali e i quartieri di edilizia sovvenzionata e borghese andavano a comporre l’immagine di un capoluogo in progresso, la cosiddetta «Grande Milano»; Vito (Firenze 1912- Albavilla 1996) e Gustavo (Milano 1920) Latis, con la loro ricerca seria e capillare giocata sui linguaggi e sui materiali venivano considerati degli esuli in «solitudine». Eppure non c’era concorso importante a cui non partecipassero e vincessero.
Il volume di Maria Vittoria Capitanucci «Vito e Gustavo Latis. Frammenti di una città», presentato alla Triennale di Milano, accompagnato da un saggio di Augusto Rossari e introdotto da una prefazione di Gillo Dorfles, vuole essere un omaggio a un lavoro considerato dagli esperti e dagli storici di oggi geniale in quanto la filosofia dei Latis si è sempre esplicata attraverso tre grandi temi: l’abitare, la formazione e la produzione quali matrice fondative della ripresa e del progresso. Temi oggi più che mai attuali.
Come racconta Dorfles nel volume edito da Skira (pagine 200, 30 euro), «... quando agli inizi degli anni Trenta da Trieste mi trasferii a Milano incontrai Ernesto Rogers. Insieme a lui avevano fatto i primi passi architettonici Belgiojoso, Peressutti Banfi e prima di loro Figini, Pollini, Terragni e Lingeri. Nell’ambito di questo gruppo del Politecnico e da poco laureati non potevano mancare i fratelli Latis seguaci di quel proto-razionalismo, il più acceso verbo architettonico tra le due guerre, che guardava i Maestri d’Oltralpe da Le Corbusier a Mies van der Rohe, da Wright a Gropius».
Che cosa distingueva i Latis dai loro colleghi? Mentre era in pieno sviluppo il gruppo funzionalista come controaltare dell’edilizia tardo ottocentesca e liberty, da un lato quella fascista e accademicizzante dall’altro? Architetti più anziani come Ponti e Portaluppi portarono un nuovo indirizzo al recente passato. Da questa esperienza Vito e Gustavo trovarono un equilibrio con una «razionalità assolutista», una posizione dettata anche dai loro interessi verso la pittura, il teatro e la fotografia. Una maestria di accordi cromatici la troviamo anche nelle facciate delle loro costruzioni. Anche la stessa sorella Marta era impegnata nel teatro.
Già agli esordi con l’osservatorio nautico di Bonassola del 1936 o Villa Jucker del 1940, di Palazzo Borromeo del 1948, l’alternarsi di pieni e di vuoti, come in via Lanzone e in piazza della Repubblica, in piena autonomia stilistica si aggiungono il lungo edificio di via Turati e via Rossetti dove si presenta un insolito gioco volumetrico della facciata e una poco consueta simmetria degli elementi aggreganti e decorativi. Mentre l’edificio di via Rovello, sempre degli anni Sessanta e di largo Cairoli vince una spazialità interna, alterata da moduli come nei progetti per le chiese degli anni Settanta. In quegli anni si fece sempre più crescente l’interesse dei fratelli Latis per Rudolf Steiner, il filosofo che fu il geniale architetto del Goetheanum di Dormach. I Latis fondarono anche una casa editrice dedicata alla pedagogia fondata sullo stesso pensiero steineriano.
L’impostazione etica ed estetica dei due architetti uscì dalle mode superficiali dal «brutalismo» al «postmoderno».

Non vanno scordati anche gli edifici di via Boccaccio, Certosa, Gherardini, Tibaldi, Melzi d’Eril, Rossetti, Meravigli... Quando nel 1953 esposero con Albini, Ponti e Gardella a Stoccolma avevano già capito che l’Italia, tutta o quasi, era nelle loro mani.

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