Candidato a cinque Oscar di peso, miglior film, film internazionale, regia, sceneggiatura non originale e suono, la Zona di Interesse racconta di Rudolf Höss, il comandante nazista di Auschwitz e della sua famiglia, che vive in una villetta con giardino accanto al campo di concentramento. A dividere la vita familiare dall'orrore è solo un muro. Il contrasto è di grande impatto.
Il film lo scorso maggio a Cannes ha vinto il Gran Premio della giuria.
Jonathan Glazer, di origini ebree, racconta della reazione di suo padre - nel frattempo mancato - quando anni fa gli raccontò la sua intenzione di fare un film su Höss. «Fu di rabbia. Lascialo marcire, mi disse. Gli risposi che no, non potevo lasciarlo marcire. Sapevo che c'era bisogno di parlare di allora per parlare di oggi. Certi orrori hanno bisogno di un costante esercizio di memoria affinché non vengano dimenticati e ripetuti».
La zona di interesse nel linguaggio nazista rappresentava l'area intorno alla quale si sviluppava un campo di concentramento e il film si concentra sulla vita nella casa del comandante Höss, della moglie Hedwig e dei cinque figli, fra quotidianità e feste in piscina. L'orrore del campo di concentramento, dall'altra parte del muro, si intuisce solo dal fumo delle ciminiere e dai suoni: rumori di fabbrica, grida, urla strazianti. È un linguaggio cinematografico molto particolare quello che usa Glazer, ad un certo punto lo schermo diventa rosso. È il rosso del sangue di 6 milioni di morti. Sono graffi sulla lavagna, cacofonie scomodissime. Il film è girato con la tecnica della termografia. A fare il film sono solo le luci naturali, o la mancanza di esse. Il concetto che l'autore aveva in mente sin da quando aveva concepito il film, dieci anni fa, è che la gente normale, come la rana di Noam Chomsky nell'acqua che bolle, riesce ad assuefarsi a tutto. «Racconto di persone qualunque che passo dopo passo si macchiano dei più atroci delitti, diventano autori di genocidio, criminali senza sapere di esserlo. È il pericolo della normalità del male, per questo occorre parlarne, perché nessun essere umano, nessuna epoca ne è esente».
Glazer ha voluto girare in quei luoghi. «Eravamo a cinque minuti da Auschwitz. Ed è stato proprio in Polonia, durante il primo viaggio di ricognizione che ho iniziato a scrivere la sceneggiatura. Avevo letto il libro ma poi lo avevo messo via. Rispetto al romanzo il mio racconto è più incentrato su Höss e la sua famiglia».
Christian Friedel e Sandra Hüller interpretano Rudolph e la moglie Hedwig Höss. La Hüller è anche lei candidata ad un Oscar, come migliore attrice protagonista, ma per un altro film, Anatomia di una caduta di Justine Triet. Avrebbe forse meritato anche questa seconda candidatura: Hüller è perfetta nella parte di una donna narcisista e completamente priva di empatia, tanto da indossare la pelliccia e il rossetto di una prigioniera e dire alla madre, ridendo, «Chiamami la regina di Auschwitz».
«Hedwig - dice Glazer - è la personificazione di quello che proprio lo scrittore italiano Primo Levi ha descritto così bene, spiegando che i mostri esistono ma sono pochi, e che ancora più pericolosi sono gli uomini comuni, i funzionari pronti a credere e agire senza fare domande».
Una normalità pericolosissima descritta perfettamente dalle telecamere nella casa accanto al campo. «Quasi un Grande Fratello nell'abitazione di un nazista - spiega Glazer, che è convinto -.
L'Olocausto non è finito con la Seconda Guerra Mondiale, è questo il messaggio che vorrei che il mio film lasciasse. La gente che descriviamo nel film può essere il nostro vicino di casa razzista o la nostra stessa dissociazione, il nostro girarci dall'altra parte di fronte alla sofferenza».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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