
Come vive uno scrittore bestseller fra un successo e l'altro? Nel caso dell'australiano Markus Zusak, autore di Storia di una ladra di libri (Frassinelli 2014, nella classifica del New York Times per oltre dieci anni), alle prese con una famiglia molto allargata. E, in particolare, con Tre cani enormi (e qualche umano) come racconta il suo nuovo memoir (Piemme, pagg. 232, euro 21), commovente e pieno di humor.
Markus Zusak, che cos'è quel «selvaggi dentro» di cui parla?
«È l'idea che tutti abbiamo qualcosa di intenso dentro di noi: qualcosa di libero e puro e piuttosto crudo, che vuole sopravvivere, vuole vivere e, ancora di più, vivere intensamente. Come esseri umani noi cerchiamo conforto, ma cerchiamo anche il caos. Sappiamo che è nel caos che abitano le nostre storie migliori, quelle occasioni in cui siamo messi alla prova: è lì che batte il nostro cuore vero».
Che cosa ha imparato addestrando i suoi cani enormi e selvaggi?
«Credo di avere imparato che, anche se li ho addestrati, c'è sempre qualcosa che, in alcuni momenti, resta fuori portata: qualcosa che non posso controllare... E c'è, anche, il fatto di imparare a convivere con tutto ciò. Il fallimento è una parte gratificante dell'esistenza, ma di solito soltanto dopo... E, soprattutto, ho imparato di più della mia capacità di amare, e anche che perdere ciò che amiamo è un'altra strana forma di gratificazione: quando sento la mancanza dei miei cani che sono morti, mi rendo conto che amo perfino quei momenti. Sono stati momenti epici, pieni di difficoltà ma anche di comicità e di amore, e tutto questo, secondo me, fa parte di una esistenza grandiosa».
C'è un legame fra la storia dei suoi cani e i suoi libri?
«Si potrebbe dire che ci sia stato tanto caos nella mia vita reale quanto caos nella mia vita di scrittore. Dopo il successo inaspettato di Storia di una ladra di libri ho impiegato tredici anni per scrivere il romanzo successivo. Mia moglie e io avevamo creato una famiglia che sembrava una piccola arca di Noè: due bambini, due cani, due gatti... C'era molto rumore, dentro e fuori dalla mia mente. All'epoca stavo scrivendo Il ponte d'argilla (Frassinelli 2018) e anche la mia vita sembrava così: annaspavo nel controllo, e portavo i miei cani a passeggiare nel buio del mattino, come tutti coloro che hanno dei problemi con i loro cani... Ma, se guardo indietro a quel periodo, lo faccio con felicità».
Come descriverebbe i suoi tre cani?
«Ruben è stato il nostro primo cane: un grosso cane dalle molte sfumature scure. Era come se fosse atterrato qui dopo un uragano o un ciclone: una creatura quasi mitica, e un animale grandioso, intelligente, ferocemente fedele. Archer era un killer gentiluomo: lo immagino come una Marilyn Monroe degli esordi. I cani, come gli umani, sono pieni di contraddizioni ed è una cosa che amo».
E l'ultimo?
«Frosty. Il più socievole e il più dispettoso dei miei cani. Grosso, bianco e turbolento: era stato restituito al canile per due volte prima che lo prendessimo noi, e presto abbiamo capito il perché. Ma questa volta ha trovato il suo...».
La sua vita famigliare con i cani suona epica: è così?
«Credo fermamente che le nostre vite quotidiane siano epiche. Tutti noi ci innamoriamo, vinciamo, perdiamo, abbiamo dei figli, le persone che amiamo muoiono fra le nostre braccia, viviamo grandi trionfi e grandi sconfitte. E i nostri animali fanno parte di tutto ciò. Quando un cane distrugge il divano, ci sono allo stesso tempo comicità, rabbia e amore, tutto insieme. Gli animali instillano la grandezza della vita nella nostra esistenza quotidiana».
Vivere con i suoi cani l'ha plasmata?
«Avere degli animali nelle nostre vite è una esperienza viscerale, ed è proprio questo ad avermi plasmato. Vivo un'esistenza normale: amo i libri, amo scrivere e amo la mia famiglia, ma credo che i miei cani mi abbiano reso più grato per tutto. Mi fanno sentire fisicamente vivo: c'è una purezza nel fatto di avere un cane al proprio fianco. Sono selvaggi, ma anche incredibilmente divertenti. E poi a un certo punto muoiono; e lo so che sembra dura ma, siccome noi sopravviviamo ai nostri animali, essi ci ricordano che nulla è per sempre».
Come ha fatto a scrivere della loro morte?
«Molti me lo chiedono, ma è esattamente per questo che scrivo: per rendere quei sentimenti reali, sulla pagina. Per sentire quella grande emozione. Il mio obiettivo è far sentire le persone come se fossero lì, nel mondo di cui scrivo; e il primo trucco è che io ci creda. Amavo i miei cani e ho amato anche scrivere della loro morte, perché è stata una prova d'amore: quei momenti erano pieni di verità, sofferenza e tragedia».
Le cose più divertenti e le più difficili che le sono capitate con i suoi cani?
«Troppe. Sono stato messo ko nell'erba, ho avuto dei cani con le viscere che fuoriuscivano dal veterinario e la polizia che bussava alla porta di casa alle due del mattino perché qualcuno aveva visto trascinare un cadavere nel nostro cortile sul retro. Era mia moglie Mika che trasportava Reuben quando era malato e non riusciva a fare le scale... Ho vissuto per loro, ho gridato contro di loro, ho fatto a pugni con Frosty quando ha cercato di colpirmi. Ma ho amato. E a volte è abbastanza».
E la violenza?
«Sia chiaro, ogni volta che ho dovuto combattere con il mio cane su un piano fisico, mi sono posto molte domande, e me le pongo tuttora. È giusto? Quando è troppo? Per sopravvivere con Frosty, era necessario che imparasse che non era lui la figura dominante. Era una modalità di sopravvivenza. Le persone possono anche giudicarmi male, e lo accetto: ho sempre da imparare. Ma per me è stato facile pensare: beh, tu vuoi prendere questo cane? Io non mi darò mai per vinto. Sono intenzionato a fare tutto lo sporco lavoro necessario».
La relazione con i suoi cani è una metafora della vita?
«Amore, caos, fallimento, successo, fedeltà, famiglia, forza fisica e mentale... Credo che molte delle cose che ho attraversato siano simboliche della vita in generale ma, soprattutto, mi abbiano ricordato che sono vivo, e che è grandioso essere vivi».
È anche una metafora della scrittura?
«Scrivere è sempre stupirsi, sempre domandarsi, sempre cercare di credere non solo nel fatto che tu possa farcela, ma che quell'atto magico di creare le parole sulla pagina possa davvero essere percepito come l'esperienza vera. E, a volte, è po' come addestrare un animale selvaggio, o almeno di corrervi accanto... Perciò sì».
Ma perché nel suo destino ci sono sempre cani grossi e selvaggi?
«Innanzitutto, mia moglie e io vogliamo che i nostri cani vengano dal canile, perché non hanno un posto dove andare. E poi amiamo i cani grossi. Siamo attratti da quei cani che, forse, sono troppo difficili per gli altri; forse vogliamo amare coloro che non sono amabili...
Un cane che muore è prezioso, e così uno che vive. E anche uno problematico, uno che ha bisogno di trovare una persona abbastanza testarda che lo ami. E questa è probabilmente la metafora più azzeccata per una vita di scrittura e di libri. È un amore testardo, e vero».
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