Vivacità e tradizione: tra Boss e maestro duello senza vincitori

Bruce Springsteen gli aveva reso omaggio rivisitandone tredici canzoni, nello splendido Whe shall overcome. Ora Pete Seeger ringrazia contraccambiando il dono, e cioè riproponendo, in Can’t start a fire without a spark, gli stessi brani nella versione originaria, la sua: quasi ad attestare quanto la reinterpretazione springsteeniana li abbia spesso arricchiti ed esaltati, senza snaturarli. Dallo scambio di cortesie emerge ovviamente una domanda: è più bella la nuda lettura dell’autore, con la voce rapinosa di Seeger accompagnata da banjo e ukulele, o quella, più generosa di suoni e colori, del suo amorosissimo alunno? Seeger insomma che canta se stesso, o Bruce che ricrea Seeger dilatandone lessico e suggerimenti?
Il quesito è ozioso, né piacerebbe ai due artisti, data la stima e la riconoscenza reciproche. È come chiedersi se siano meglio i Quadri in un’esposizione di Musorgskij nella stesura per pianoforte dell’autore, o nella rielaborazione sinfonica che ne fornì Ravel. Anche qui, nel raffronto tra i due album, si contrappongono, no, si completano, il bianco e nero della «lettura» di Seeger e la policromia di quella del Boss, affidata ad una vera orchestra. Senza che l’una prevalga sull’altra, entrambe avendo per oggetto le stesse canzoni, la stessa feconda intenzione «eretica» e lo stesso intreccio di folk urbano e ruralità. Ciascuna, poi, esibendo meriti e seduzioni diverse, così che i due dischi mantengono tra loro un magico equilibrio. La voce dolce e virile di Seeger non è meno stregante di quella roca ed epica di Springsteen, e la «povertà» dell’accompagnamento seegeriano non costituisce quasi mai un limite: si ascolti Erie Canal, con quelle frustate del banjo taglienti come accordi di pianoforte o d’orchestra. E si senta com’è travolgente, in Old Dan Tucker, il veloce fraseggio di Seeger: non meno del vitalismo guascone che allo stesso brano imprime Springsteen. Del pari, la frizzante lettura seegeriana di Jesse James non cede, quanto a brio, a quella di Bruce, pur ravvivata da trombone scoppiettante e banjo al galoppo.
Seeger, si sa, viene da Guthrie e Leadbelly, il Boss da Elvis e Steinbeck, Guthrie e Leadbelly avendoli recuperati attraverso Dylan, che pure viene da Dante, dalla Bibbia, da Rimbaud: ecco dunque che la grande canzone americana, quella capace di volare oltre le bassezze consumistiche, sa proporre un intrico di culture straordinariamente fascinoso.
E qui Seeger lo conferma, pur nella finta semplicità della scrittura, semplicità invero assai composita. Che va dalla dolcezza solenne - un vero ossimoro - di Jacob’s ladder a quella trasognata di Shenandoah, dalla spoglia immediatezza di We shall overcome - ma qui la versione del Boss, stupefatta e struggente, è una piccola sinfonia in punta d’animo, e l’allievo surclassa di netto il maestro - alle intenzioni gospel di If I had a hammer.

E ancora nell’ironia fine di Froggie went a courtin’, nella serrata vivacità di Buffalo gals, nella rapsodica Oh Mary don’t you weep, o in una Mrs McGrath sornionamente in bilico tra l’affettuoso incalzare d’una marcetta e un’epicità sottopelle ma non troppo.

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