Il rapporto tra politica e tecnica è diventato un tema ricorrente negli ultimi anni e un argomento affrontato da numerosi studiosi che hanno indagato la nascita, lo sviluppo e la crisi della tecnocrazia. Un aspetto meno trattato in Italia (ma argomento sviscerato e approfondito in altri Paesi, in particolare negli Stati Uniti) è invece il legame tra governo e management. A colmare questa lacuna ha provveduto Lorenzo Castellani, giovane professore della Luiss che ha di recente pubblicato Il Minotauro. Governo e management nella storia del potere (Luiss University Press, pagg. 200, euro 18).
Castellani non è nuovo al tema, già nel suo libro L'ingranaggio del potere nel 2020 si era concentrato sulle relazioni fra tecnica e politica, sostenendo che «il principio di competenza si è sovrapposto al principio democratico, erodendone spazi e responsabilità». Oggi però l'ingranaggio del potere della tecnodemocrazia rischia di incepparsi.
Elemento preminente di questo legame è il management e Castellani ne ripercorre la storia dalle sue origini fino ai nostri giorni utilizzando la metafora del Minotauro, «mezzo burocrate e mezzo manager, mostro mitologico che sintetizza le due grandi leve del potere moderno».
Se la nascita della politica e dello Stato si perde indietro nei secoli, «il management, al contrario, si affaccia alla storia soltanto alla fine dell'Ottocento come espressione di un capitalismo più maturo che diviene, di conseguenza, pronto a sostituire il genio dell'imprenditore singolo con la competenza di una classe di dirigenti industriali, i manager».
Nel secondo dopoguerra la figura del manager è integrata, «insieme a scienziati e altri tecnici, non soltanto nelle articolazioni del governo ma come attore che partecipa alla costruzione di una nuova società e di nuove politiche economiche e sociali». L'apice del rapporto con la politica si tocca negli anni Ottanta e Novanta, in concomitanza con il periodo di elaborazione del nuovo liberalismo in cui i politici vedono nei manager un modello per la loro azione e un simbolo di efficienza e capacità per risolvere i problemi.
Anche quando questo sistema inizia a incrinarsi, con la crisi finanziaria del 2007-2008, i governi continuano a guardare al management «che diventerà, prima, gestione della crisi anche nelle amministrazioni pubbliche attraverso gestioni commissariali e governi tecnocratici e, poi, tentativo di amministrare la complessità e l'interdipendenza di sistemi che trascendono i confini delle nazioni e sono oramai disposti su una governance multilivello».
Avviene così un'influenza reciproca basata sulla comune radice della politica e del management che si fonda sull'organizzazione e sul potere e, scrive Castellani, «come il governo genera sicurezza attraverso il controllo, più o meno vasto, del conflitto politico, così il management produce efficienza attraverso la neutralizzazione del conflitto economico».
Eppure, dopo l'apice raggiunto dal neo-managerialismo all'inizio del Ventunesimo secolo, nell'ultimo ventennio abbiamo assistito a una fase di crisi di questo modello: «lo smantellamento e la disaggregazione dello Stato nei decenni precedenti, le nuove minacce alla sicurezza e poi l'impatto devastante della crisi finanziaria ed economica del 2008 sposteranno progressivamente le fondamenta dell'amministrazione, nella teoria e nella prassi, verso una fase post-manageriale. Fase in cui i governi non rinnegheranno i princìpi del neo-managerialismo ma li affiancheranno con altri valori e necessità».
Il 2008 rappresenta una vera e propria cesura, incrinando il mito della superiorità del privato e del mercato, delegittimando per l'opinione pubblica «il ruolo di guida politica di tante istituzioni internazionali che avevano contribuito a forgiare il New Public Management».
Così «l'era manageriale terminava ovunque tra i fumi e sotto i colpi del populismo, del nazionalismo, del neo-statalismo» e il pubblico torna ad acquisire centralità con la sicurezza che supera la libertà e il protezionismo che modella il mercato. Secondo il politologo Paolo Gerbaudo «ci troviamo nel momento di passaggio tra due diverse ere ideologiche: da un lato quella neoliberista dall'altro una nuova era che descriverei come neostatalista».
Va letto in quest'ottica l'orientamento securitario e protezionista assunto dalla politica in Occidente con un ritorno di centralità dello Stato, «si è insomma passati da un tentativo di controllo del conflitto politico attraverso il mercato, la managerializzazione e la sfumatura tra pubblico e privato, svoltosi tra gli anni Ottanta e Duemila, a un'ipotesi di addomesticamento del conflitto stesso attraverso la difesa, il protezionismo, il dirigismo. Se libertà, mercato e consumo erano i concetti-chiave della stagione neo-manageriale, sicurezza, controllo e politica industriale sono quelli della nuova epoca in cui stiamo entrando».
Castellani conclude il suo libro annotando come questo nuovo scenario che si è delineato porta con sé opportunità e rischi. Più che concentrarsi sulle opportunità (grosso modo riassumibili nel poter costruire sistemi amministrativi più responsabili, nella formazione dei nuovi servitori dello Stato e nella possibilità di evitare eccessive generalizzazioni delle tendenze globali del momento), vale la pena soffermarsi sui rischi. Secondo l'autore esistono essenzialmente tre pericoli di cui il primo e più rilevante è «quello di un eccesso di centralizzazione e dirigismo fondato sul ritorno dell'intervento statale nell'economia e nella società». Il secondo rischio consiste in un'eccessiva espansione della politica nei settori non-politici come economia, cultura e società e, al tempo stesso, che le organizzazioni pubbliche e private si politicizzino eccessivamente.
L'ultimo rischio è invece «un depauperamento ulteriore dell'autorità e dell'autorevolezza dell'amministrazione pubblica, nonostante questa sembri oggi destinata a vivere una fase di espansione in termini di poteri, risorse e persone».La sfida che oggi ci troviamo ad affrontare è proprio quella di un nuovo equilibrio nel rapporto tra politica e management.
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