Il maestro, il decano, forse l'ultimo grande del teatro italiano ha mancato per un soffio i 94 anni e si è spento a Roma nella notte di ieri, poco più di un anno esatto dopo il suo storico sodale di scena e di compagnia fondata insieme nel 1981, Roberto Sturno. In settant'anni di palcoscenico, centinaia di repliche e in modi così penetranti e unici, Mauri per molti non solo è stato, ma sarà sempre Lear, Vania, Edipo, e poi Prospero e Martino Lori, Fauste Hamm. Tutti gli archetipi e i personaggi del teatro che vogliamo e possiamo immaginare, una voce e un corpo che erano la scena stessa che calcava. Tutto in lui era incommensurabile, quando era sul palco: voce, occhi, capelli, mani, incedere, in una presenza imponente e fragile insieme, e tutto profondamente naturale. Assorbiva l'emozione del pubblico per condurla nella dimensione del ruolo anche solo stando seduto, ad accarezzare l'aria, come il Lear nella folle melanconia di padre abbandonato, il ruolo che ha sempre voluto rifare fino all'ultimo.
Pesarese, è adolescente e già protagonista in una compagnia amatoriale nel gennaio 1946, dopo aver cominciato come suggeritore, nella filodrammatica della parrocchia («Il palcoscenico si trovava al posto dell'altare») ne La notte del vagabondo e nel 1949 è già a Roma per frequentare l'Accademia: con lui Sergio Tofano, Orazio Costa, Wanda Capodaglio. Il direttore Silvio d'Amico gli presenta il bivio: borsa di studio per musica - aveva voce da tenore - o teatro. Non ci dorme una notte e poi prende la strada che sappiamo. Da professionista debutta nel '53 proprio con Orazio Costa e Macbeth di Shakespeare, tra i suoi autori più amati insieme a Dostoevskij e Beckett. Nello stesso anno è Sir Tobia ne La dodicesima notte con la regia di Renato Castellani e poi Smerdjakov ne I fratelli Karamazov con Memo Benassi, Lilla Brignone, Gianni Santuccio, Enrico Maria Salerno. Nel 1957 è con Renzo Ricci in Lunga giornata verso la notte di Eugene O'Neill e poi per alcuni anni con la compagnia di Anna Proclemer e Giorgio Albertazzi e poi ancora nei primi anni Gino Cervi, Aroldo Tieri, Salvo Randone. Fino a un «grande salto», come lo chiamava, per aver fondato nel 1961 con Franco Enriquez, Valeria Moriconi, Emanuele Luzzati la Compagnia dei Quattro, ai quali si aggiunsero Mario Scaccia e Pina Cei. Dopo lo scioglimento lavora soprattutto per gli Stabili: a Torino, Genova, Bologna, con Luigi Squarzina, Giorgio Strehler in Santa Giovanna dei Macelli, Mario Missiroli, Luca Ronconi, che nel 1972 lo dirige nell'Orestea di Eschilo al Bitef di Belgrado, alla Sorbona di Parigi, alla Biennale di Venezia, e Aldo Trionfo, con cui fece un Tito Andronico innovativo e censurato, con i giovani Gabriele Lavia, Franca Nuti, Paolo Graziosi. Arrivarono poi la radio, la tv in storici sceneggiati Rai come I demoni di Dostoevskij e I Buddenbrook di Thomas Mann, e il cinema, dove lo ricordiamo ne La Cina è vicina di Bellocchio ('67), L'ospite della Cavani ('71), Profondo rosso di Argento ('75), Ecce Bombo di Moretti ('78).
Di questo e di altro teatro parla nei suoi due libri Il mestiere dell'attore e Le lacrime della Duse. Del teatro come missione, al punto che fino ai settant'anni abitò in albergo, quasi sempre a Roma, fino a quando nel 2000 prese casa in un ex convento insieme alla famiglia di Roberto Sturno, che viveva al piano alto. Perché altro grande salto della vita di Mauri fu quello con cui abbandonò gli Stabili, e con essi la stabilità economica («Furono anni durissimi perché non avevo niente. Mi ricordo che vendemmo tutto, facemmo cambiali...») e fondò la Compagnia Glauco Mauri, divenuta poi Mauri-Sturno: Il signor Puntila e il suo servo Matti di Brecht, con la regia di Egisto Marcucci, fu il primo spettacolo prodotto, poi arrivarono Edipo Re - Edipo a Colono ('82), Filottete di Sofocle, Philoktet di Heiner Müller ('83), Re Lear ('84), Sogno di una notte di mezza estate ('88). Il pubblico amò una coppia tanto inossidabile e affiatata quanto diversa per temperamento e carattere per oltre quarant'anni, fino a farne un marchio. Tra le produzioni Mauri-Sturno degli ultimi anni, En attendant Beckett nel 2017/18, percorso multimediale di atti unici, brani, radiodrammi e poesie; nel 2020 per la terza volta Re Lear; nel 2021, allo Strehler di Milano Variazioni Enigmatiche di Eric Emmanuel Schmitt e dieci giorni fa al Teatro Rossini, festeggiando 71 anni di teatro, la nuova versione teatrale della lettera autobiografica di Oscar Wilde dal carcere, De profundis, appunto.
Ai giovani che vogliono fare teatro raccomanda, a Siracusa ritirando l'Eschilo d'Oro nel 2022, di «avere fiducia, perché con questa decisione si sono assunti
una grande, meravigliosa, responsabilità: quella di raccontare delle favole, sperando che questo possa aiutare gli uomini a tentare di capire quella favola grande, a volte affascinante, a volte terribile, che è la vita».
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