Dalla Woolf alla Sagan: le lacrime del successo

Un nuovo saggio racconta i destinidi ventitré donne nelle cui vite si incrociano genio, popolarità e depressione. Invidiate, ammirate, desiderate: ma le loro esistenze erano piene di angoscia

Dalla Woolf alla Sagan: le lacrime del successo

Le italiane sono depresse. Secondo i dati medici, l’Italia conta quindici milioni di depressi, il 25 per cento della popolazione. Per la maggior parte donne.

Perché le donne? Difficile dirlo. La malattia non è quasi avvertibile all’inizio: una strana stanchezza, un mal di testa ricorrente, la voglia, una mattina, di cacciare la testa sotto le lenzuola, pur di non affrontare la giornata. Poi i sintomi si fanno più evidenti: l’insonnia, la perenne insicurezza, le crisi di pianto, gli scatti nervosi, il desiderio di solitudine e insieme un ossessivo bisogno di avere qualcuno vicino. La ricerca di qualcosa «per tirarsi su». Ed ecco che l’occhio cade sulla bottiglia di whisky, sulle pillole prescritte dal medico e già prese la mattina. Perché non prenderne un’altra? Magari con un sorso di liquore, tanto per stordire l’angoscia con la momentanea euforia?
C’è un altro dato che colpisce, nella depressione femminile. Le Grandi Depresse non sono solo donne dalla vita dura e stentata. Non sono i milioni di anonime che ogni giorno si sfiancano tra i figli, la fabbrica, il lavoro nei campi. Sì, è vero, ogni giorno nel mondo, migliaia di sconosciute inghiottono una manciata di pillole o infilano la testa nel forno come fece nel 1962 la poetessa Sylvia Plath. Ma loro hanno la giustificazione della fatica, della povertà, della solitudine.

Ma le Bellissime, le Famose, le Desideratissime? Marilyn Monroe, tanto per citare un’icona planetaria? Marco Innocenti è un giornalista-scrittore che già da tempo indaga nell’universo femminile, che siano Le signore del fascismo o le Belle da morire o Le stelle di Parigi. Con La malattia chiamata donna (Mursia, pagg. 219, euro 17) scende nei meandri della depressione, raccontando la vita e la morte di ventitrè donne celebri - artiste, scrittrici, poetesse, cantanti, attrici, ereditiere - che hanno pagato a un prezzo altissimo celebrità e bellezza. Donne da copertina, vite vissute sotto il lampeggiare dei flash, vite invidiate, sognate. Vite irripetibili. Storie dannate. Eppure sono storie che sembrano sempre iniziare sotto la luce di una stella benigna.

Camille Claudel è giovane, bella, occhi luminosi. Suo padre la chiama amorevolmente «la mia topolina» e ne appoggia la vocazione artistica. Diventerà una grande scultrice, ne è sicuro. Non sa che inciamperà in un amore distruttivo, quello con Auguste Rodin, tanto grande come artista quanto tortuoso ed egoista come uomo. La distruggerà in pochi anni, la lascerà morire il 19 agosto 1943 in un ospedale psichiatrico.

Anche Zelda Sayre, la bellissima dannazione di Scott Fitzgerald, finirà rinchiusa all’Highland Hospital di Asheville nella Carolina del Nord, in preda a un’acuta mania suicida. La sua morte, a 40 anni, bruciata viva nell’incendio che devasta l’ospedale, è stata a lungo paragonata a quella di una farfalla che si è bruciata le ali per aver danzato vicino al fuoco.

Altre ce l’hanno fatta a non finire prigioniere dei manicomi e dell’oscurità mentale. Virginia Woolf si è messa due pietre in tasca prima di incamminarsi fra le acque del fiume Ouse nel Sussex. Katherine Mansfield ci ha pensato la tisi a toglierla anzitempo dalla comunità-lager di un losco santone di Fontainebleau dove si era rifugiata per sfuggire la depressione. È ancora la tisi che uccide la bellissima Vivien Leigh, indimenticabile Rossella O’Hara, ormai ridotta a una larva dagli elettroshock per curarle «una psicosi... caratterizzata da un aumento della libido accompagnato da un’incontrollata attività sessuale».

Jean Seberg, fragile bellezza bionda americana, arriva al successo a Parigi interpretando Bonjour tristesse e A bout de soufflé. Capelli alla maschietta, sguardo azzurro, un matrimonio fallito con lo scrittore Romain Gary. Un precipitare nell’alcool e nella droga, fino a quando la trovano morta in automobile. Gary accusa l’Fbi di omicidio: Jean era stata una militante delle Pantere Nere. Un destino, il suo, stranamente simile a quello dell’autrice del film che l’aveva resa celebre. Anche Françoise Sagan diventa famosa a soli diciotto anni con Bonjour tristesse, 800mila copie vendute in sei mesi. «Genio impudente» la definirà Cocteau. Non è bella come Jean, ma ha anche lei il caschetto biondo e una nevrotica voglia di bruciare la vita fra incidenti d’auto, colossali bevute, amori bisessuali, notti al tavolo da gioco. Quando muore a 69 anni, alcolizzata e distrutta dalla cocaina, non ricorda nemmeno di essere stata l’adolescente sfrenata con il piede perennemente sul pedale dell’acceleratore.

Ma è solo la depressione o è una profonda infelicità a distruggere donne che avevano talento e fascino? A uccidere Romy Schneider, bellissima attrice austriaca, è l’incapacità di vivere o il devastante dolore per la morte tragica del figlio quattordicenne? E Diane Arbus, la grande fotografa dei «freaks» che si taglia le vene la mattina del 27 luglio 1971 al Village, è stata distrutta dalla depressione o da quel Male che ha continuamente inseguito nei suoi ritratti di disperati? E la rockstar Janis Joplin, stroncata dall’eroina a 27 anni, è stata uccisa dalla depressione o dai miti malefici degli anni Sessanta?

Per tutte loro sembra che la vita sia stata solo un più o meno lungo flirt con la morte.

La morte? «Solo un corpo da seppellire» ha detto un giorno Marilyn Monroe. E la vita? Nulla. «Che cosa vuoi fare della vita?», si chiede Dominique, la protagonista di Un certain sourir della Sagan: «Nulla, assolutamente nulla».

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