Sembra che Yara appartenga ormai a un passato lontano, sembra già di richiamarla da una memoria remota, ma non è così: da sei mesi, dallinfernale 26 novembre, Yara ancora aspetta di trovare il suo meritato angolo di pace. Finalmente l'avrà. Per il suo compleanno impossibile, per i 14 anni che cadevano ieri e che non ha compiuto mai, la giustizia italiana si è data una scossa: la bambina d'Italia può tornare a casa. A giorni, la settimana prossima, quel funerale che la sua famiglia, tutta Brembate, tutta Bergamo, tutta la gente sensibile di qualunque parte attendono da tanto tempo. Da troppo tempo. Da un tempo diventato giorno dopo giorno sempre più insopportabile e impietoso, ai limiti della crudeltà.
Grazie al Cielo lo spirito innocente di Yara è nel posto giusto sin dal primo momento. E questo in fondo è ciò che conta davvero. Ma da sei mesi era irrisolto e irrimediabilmente tragico il destino delle sue spoglie terrene, prima gettate offensivamente nello squallore dei capannoni di Chignolo, quindi - dal 26 febbraio - requisite per esigenze investigative. Da quando Yara uscì di casa per recarsi in palestra, in un grigio pomeriggio di novembre, alla sua famiglia non hanno più concesso la consolazione di una veglia, di un pianto, di una carezza. Sopra le impellenze spirituali, l'intransigente procedura della legge: novanta giorni di rilievi e di analisi, salvo proroghe. Ad un certo punto, queste proroghe, ulteriore allungamento di uno strazio infinito, sembrava inevitabile. A confermarlo la piemme che dirige il caso, peraltro lontanissimo da un epilogo: «Mi spiace - le poche parole concesse - capisco la situazione della famiglia e ne soffro, però
».
Però vengono prima le «esigenze investigative», questo il però. Il che sarà pure vero, ma a tutti è sembrato a un certo punto eccessivo, con le vaghe sembianze di un accanimento. A sei mesi dalla sparizione, a tre mesi dal ritrovamento, una mamma ancora non può ricomporre il suo lutto, un padre non può ripristinare un minimo di vita famigliare, i fratellini non possono in qualche modo superare. Sempre quel dolore incombente, sempre quella lontananza incolmabile. Mentre la giustizia chiedeva di comprendere le proprie difficoltà, tutti abbiamo pensato a quelle molto più dolorose della povera famiglia. Nelle case e nelle scuole, negli uffici e nelle fabbriche, ogni tanto la domanda è riemersa tra la confusione dei nostri ritmi sfrenati: ma Yara dov'è, ma Yara sta ancora all'obitorio?
Sì, certamente, Yara è rimasta in tutto questo tempo nel gelo e nella solitudine di un obitorio. Da efferato caso di cronaca nera e assurdo polpettone giallo-televisivo, la sua storia si è trasformata in un incredibile supplizio intimo e famigliare, tutto interno alla sua casa e alla sua comunità. E quando da tante parti si è levata l'inevitabile domanda, ma hanno senso tutte queste lungaggini, dalla giustizia sempre la stessa risposta: esigenze investigative. Come tavole della legge: intoccabili, insindacabili, immutabili.
Cara Yara, per questo compleanno trascorso dentro un obitorio di Milano, per questa interminabile solitudine inflitta dalle «esigenze investigative», bisogna doverosamente chiederti scusa. A te e a chi da sei mesi ti piange a distanza, aspettando di piangerti finalmente su una tomba, con un fiore, vicino a casa. Se la giustizia umana fosse capace di umanità, forse i tempi si sarebbero accorciati di molto. Per un caso come il tuo, sarebbe servito uno scatto di pietà e di elasticità, qualcosa definibile come emergenza e come urgenza. Non è andata così. Piccola cara, prendi questa liberazione come l'ultimo regalo, purtroppo tardivo.
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