A Zerolandia si ama e ci si annoia

Non si può dire che il romanzo d’esordio di Paola Predicatori, Il mio inverno a Zerolandia (Bompiani, pagg. 239, euro 16,50), racconti in modo poco convincente la storia d’amore di due adolescenti. Al contrario: il lettore scivola nei panni della protagonista Alessandra, occupata ad affrontare l’ultimo anno di un liceo frequentato da sciacalli e vipere, ma anche da Gabriele, detto Zero. Aspirante drop out, con molte assenze e un soprannome che allude ai suoi voti, Gabriele è il fuoco con cui Alessandra giocherà. Il ragazzo la aiuterà a superare il lutto per la morte della madre, morte narrata con efficacia addirittura eccessiva. Peccato che l’autrice si affidi a soluzioni che avviliscono le sue pagine.
Intendiamoci, la nostra esordiente sa come toccare i precordi, mescolando Moccia e De Carlo, l’infatuazione scolastica per il teppista e il Bildungsroman tarato sui sedicenni. Cosa, allora, disturba, a parte i disarmanti modelli pop? Gli spudorati ammiccamenti a un supposto e inesistente gergo giovanile («I love Zerolandia»; «siamo Ale e Gabriele, come due nomi dentro un cuore»), il poeticismo dozzinale: «Due zeri in fuga nella notte, l’infinito, anche noi lorlo di qualcosa che combacia con il buio». Due arcobaleni finiscono nel mare? «Andiamo a vederli, hai detto sorridendo, e allora abbiamo preso la macchina e siamo andate al mare». Disturba che si diano il cambio i capitoli dedicati alla bella storia d’amore fra Alessandra e Gabriele e quelli destinati al ricordo della madre, cosa che oltre a riverberare sull’autrice un sospetto di cinismo, trasforma l’elaborazione di un lutto nella sua cronicizzazione. E costringe il lettore non malsano a saltare «quei» capitoli, annunciati da titoli minatori: «Nei tuoi occhi». «Gabriele ti sarebbe piaciuto». «Elenco delle cose che non ho fatto per te». Fino all’inevitabile «L’altra notte ti ho sognata».

L’effetto di queste scelte narrative è che il recensore si ritrova nella parte di un esperto d’arte costretto a stimare il valore di un lingotto d’oro; e comincia a saggiare il romanzo con gli occhi pelosi del libraio, non con quelli del critico letterario.

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