I radical chic milanesi che accusano la destra di non fare cultura

Polemica infuocata sotto la Madonnina. Vittorio Sgarbi risponde al critico Giovanni Agosti, per il quale da decenni la città è un deserto artistico

I radical chic milanesi  che accusano la destra  di non fare cultura

Tra le pagine più acute nello stigmatizzare le mitologie milanesi, ci sono quelle di uno scrittore originale e riparato come Alessandro Spina. Il quale scrive: «Erano gli anni funesti dell’estetismo populista. Di cui, è curioso, l’artista più rilevante è stato forse non uno scrittore, ma un regista, Giorgio Strehler. Si ricordi l’insopportabile seconda versione dell’Opera da tre soldi, tutta stracci e haute couture, senza una briciola della crudeltà intellettuale di Weill e di Brecht».
Diverso è il conformistico avviso di Giovanni Agosti che vede nell’epoca di Strehler gli ultimi prodigi della cultura milanese. Il suo libretto Le rovine di Milano (da poco uscito per Feltrinelli) è un esempio di livore e astio che, con patenti di merito e demerito attribuite arbitrariamente, nasconde la malcelata ambizione di essere chiamato a misurarsi e a dar prova del suo valore. La confessione è all’inizio e alla fine del libro: «L’occasione è stata l’insperata vittoria delle forze di sinistra nelle elezioni comunali di Milano il 30 maggio» ... «Adesso sarebbe bene, percorso il periplo e giunti alla meta, avanzare proposte concrete e percorribili per il futuro, ci si augura migliore. Non intendo sottrarmi all’esercizio...».
La quantità di menzogne e di interpretazioni tendenziose rende il libro godibile per chi ama il pettegolezzo in chiave maliziosa, con un retrogusto omosessuale, e con il compiacimento di vedere sempre l’aspetto negativo delle cose. Naturalmente ad Agosti piacciono un po’ le cose ovvie, consacrate dalla moda e dal mercato. Così plaude alla Paola Pivi, a Cattelan, ad Althamer. E pone in luce sinistra il lavoro che non capisce e il mercato che non controlla.
Naturalmente tra i suoi ammirati c’è Gianni Romano, di cui dimentica il conflitto d’interessi che lo portò a proporre al Comune di Torino - per una cifra 15 volte superiore a quella di acquisto - un piccolo crocefisso attribuito a Giambologna (e in realtà dell’ambito del Susini), ponendosi in equilibrio tra esperto dell’antiquario e consulente de Comune. Sono questi i modelli cui Agosti si ispira, disprezzando tutti quelli che non appartengono alla sua consorteria.
Agosti racconta gli episodi e le occasioni della realtà milanese in modo lacunoso, approssimativo, parziale, ignorando che i finanziamenti per teatri come La Scala e per il Piccolo e le altre spese strutturali assorbono il 90% del bilancio dell’assessorato alla Cultura, e che, quindi, non è un’abiura dello Stato o dell’Ente Pubblico l’utilizzo di coscienziose società di servizi che trovano sponsor e coproducono le mostre: una falsa contrapposizione, un moralismo che, come alternativa, ha solo l’impotenza. Alla quale sarebbe destinato, con i suoi propositi, l’auto-candidato consulente di Boeri, Agosti.
Divagazioni, bagatelle, riferimenti all’antiquario Gilberto Algranti alternati al giudizio sulle cose fatte, rendono il libretto del livoroso autore un piccolo strumento per esprimere ritorsioni, vendette, antipatie: giudizi conformistici, presunzione, disprezzo per chi esprime un gusto diverso dal suo (come nella liquidazione del Padiglione Italia alla Biennale di Venezia di quest’anno curato dal sottoscritto), dall’alto di una superiorità che non si capisce chi gli abbia attribuito, con il falso ideologico che l’arte contemporanea sia un territorio per specialisti, davanti al quale l’incompetente intellettuale, che si può esprimere sul cinema, sul teatro, sulla letteratura, dovrebbe sospendere giudizio e gusto.
L’illustre Giovanni Agosti può parlare di Giovanni Frangi, il modesto Ferdinando Bologna - il decano degli storici dell’arte italiani - deve astenersi. Questo è il metodo. Non si salvano neanche collezionisti come Luigi Koelliker di cui si immagina un disfacimento delle raccolte che non c’è stato, in seguito alla legittima vendita di qualche dipinto.
Agosti è felice di avere davanti le rovine di Milano e propone una ricostruzione fondata sul suo diritto ideologico. Prima di lui erano predestinati a fare male. Per quello che lo riguarda, «nel campo della cultura la cosa più importante prodotta a Milano durante l’amministrazione di (che non vuole affatto dire “da...”) Letizia Moratti, cioè tra la primavera del 2006 e quella del 2011, è il Tristano e Isotta di Wagner, diretto da Daniel Barenboim e messo in scena da Patrice Chéreau, con le scene di Richard Peduzzi. Lo spettacolo ha debuttato alla Scala il 7 dicembre 2007; solo lì ho avvertito - in questo tratto di storia - il riannodarsi dei fili con una grande tradizione espressiva e civile, prima consueta a Milano e oggi perduta». Si trattava di una grande mistificazione, e di un tradimento di Wagner nel nome di un populismo ideologico. Ma, al di là dei gusti, Agosti dimentica che quella messa in scena costò circa due milioni di euro, buttati per il piacere di qualche migliaio di ricchi, alla prima e nelle repliche alla Scala. Sono così i nostri rivoluzionari, fanno la rivoluzione con i soldi dei capitalisti. E gli altri, che lavorano senza soldi, lo fanno per oscuri interessi.
Davanti a una mostra ricca di quadri importanti come Gli occhi di Caravaggio, aperta al Museo Diocesano e da me curata, il pettegolo si sofferma sui rapporti fra Sgarbi e la Moratti, «sotto lo sguardo benevolo di Silvio Berlusconi», e, sconclusionatamente, commenta: «Di fronte a tutto questo da parte del Comune, lo Stato, nella figura della Sovrintendenza, cioè degli organi preposti alla tutela delle opere d’arte, non è riuscito purtroppo a rappresentare a Milano un sponda adeguata di resistenza». Ma va là. In questo affannarsi Agosti dimentica occasioni memorabili e impegnative come le belle mostre di Boccioni e di Balla, di Bacon, L’arte delle donne, quelle di Witkin e Saudek, di Weegee, di Frank, di Von Gloeden, di Ferroni e di Guccione (certo non grandi come Frangi !), di Tamara de Lempicka, dei Canova dell’Hermitage, di Fabio Novembre, di Bruno Munari, di Dino Buzzati, di Vivian Westwood, di Hopper. E dell’omaggio a Elio Pagliarani, della mostra di Mattew Spender, del Festival Mito, e di infinite altre occasioni.


Insomma, due anni - quelli nei quali ho ricoperto la carica di assessore alla Cultura a Milano, dal 2006 al 2008, di intensa e febbrile attività, che non potranno essere cancellati dalla supponenza e dalla disonestà intellettuale di chi critica gli altri e dimentica il conflitto di interessi che lo vuole curatore della futura mostra (nel 2014) di Giulio Romano per conto del Comitato scientifico di Palazzo Te di cui fa parte. Qualcuno dovrà dirglielo. Per evitare le rovine di Mantova.

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