Gli aneddoti (inventati) e un unico rammarico: aver cercato invano di migliorare il Paese

Un ricordo su Montanelli tratto da "Ve li racconto io. A tu per tu con i protagonisti del Novecento" (Mondadori)

Gli aneddoti (inventati) e un unico rammarico: aver cercato invano di migliorare il Paese
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Vedo per la prima volta - è il 26 febbraio 1957 - Montanelli al lavoro. Scrive a velocità astrale, senza un’esitazione, un ripensamento, un rimorso. E senza fronzoli e barocchismi. Usa molti aggettivi, mai a sproposito. Ama gli aneddoti e quelli con cui condisce gli articoli sono spesso inediti o spiritosamente inventati. Diffida delle astrazioni e rifugge dai luoghi comuni e dalle frasi fatte. Prende per mano il lettore dalla prima all’ultima riga, senza farlo sbadigliare, ma divertendolo, e divertendosi con lui. Gli ammicca per renderlo complice di una battuta o di una rivelazione.

Non è un uomo facile e, come tutti gli uomini di carattere, ha un cattivo carattere, che diventa pessimo quando deve fare qualcosa controvoglia o discutere con i cretini. Non ha peli sulla lingua e non intinge la penna nell’inchiostro neutro. Dice quello che pensa ed è allergico alle mode, che così facilmente passano di moda, e a ogni forma di conformismo, in un Paese che ama il coro e il gregge.

13 novembre 1965. Montanelli mi ammonisce: «La cultura, per un giornalista, è come una puttana: la puoi frequentare, ma non devi ostentarla. La cultura si tiene nel cassetto. Il lettore non va trattato dall’alto in basso, ma preso per mano come un amico e portato dove vuoi».

16 ottobre 1968. «La nostra Storia d’Italia - mi dice Montanelli - per molti insegnanti è merce di contrabbando». Il figlio di un amico, che frequenta la terza media, è stato rimandato a settembre perché sorpreso a leggere l’Italia dei Comuni. La nostra colpa, anzi le nostre colpe, sono due: scriviamo in modo chiaro, senza pennacchi e senza fronzoli, e non siamo al servizio né al soldo di alcun Principe. Che, poi, è uno solo: quello rosso del Bottegone.

10 marzo 1985. Un collega mi dice perfidamente di Montanelli: «Fingendo di andare controcorrente, è sempre rimasto a galla».

11 gennaio 1994. Indro Montanelli ha lasciato il Giornale in polemica con Berlusconi. La sinistra gongola: ne farà il suo nuovo eroe, il suo nuovo santo patrono, immemore che, fino a ieri, gli aveva dato del conservatore, del reazionario, del fascista. Anzi, dello «sporco fascista». Indro poteva anche rompere con il Cavaliere, ma non doveva buttarsi fra le braccia di chi, per lustri, lo aveva messo in croce e all’indice.

30 giugno 1995. Montanelli mi racconta che tempo fa vide Berlusconi a cena ad Arcore. «Accettai l’invito a ben precise condizioni. Dissi a Silvio: “Vengo, ma niente telecamere. E nessuna soffiata ai giornali: mi hai invitato tu, non è la mia Canossa”». Silvio promise e l’incontro avvenne. Indro mi dice che sconsigliò il Cavaliere dal mettersi in politica, campo minatissimo per un imprenditore. Berlusconi non gli diede retta: fondò Forza Italia e vinse le elezioni, alleato della Lega, della destra di Fini e della vecchia Dc moderata di Casini. Indro riconosce di essersi sbagliato. Oggi ce l’ha anche con Bossi che fece cadere il governo risparmiando a Berlusconi una figuraccia... Se Berlusconi fosse rimasto a palazzo Chigi, avrebbe dovuto mantenere tutte le promesse fatte agli italiani. A cominciare dal milione di posti di lavoro. Ho qualche dubbio, ma Indro ne è arciconvinto... Il discorso cade sul Corriere, sul suo direttore Ferruccio De Bortoli e sugli azionisti Agnelli e Romiti. Di De Bortoli Indro tesse un grande elogio: «Finché ci sarò io, nessuno lo toccherà». La serata finisce con un amarcord, uno dei tanti, di via Solferino. Chiedo a Indro di parlarmi di Dino Buzzati. Mi dice ch’era un idiota con in gola un uccellino dalla cui ugola uscivano note meravigliose e che aveva un debole per le puttane. Io, Dino, l’ho conosciuto bene, e confermo.

16 gennaio 2000. A cena con Vittoria da Montanelli. Dopo mangiato, ci sediamo in poltrona e Indro ci dice: «Non ho più voglia di scrivere.

Per settant’anni ho cercato, nei limiti in cui è consentito a un giornalista e uno scrittore, di migliorare questo Paese. Non ci sono riuscito. È stata una battaglia inutile, una partita persa. Me ne vado, e me ne vado per sempre, con questo rammarico».

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