
«La democrazia è come un treno, quando arrivi a destinazione scendi». Recep Tayyp Erdogan lo dichiarò nel lontano 1995 quand'era ancora sindaco di Istanbul. Trent'anni dopo, il presidente turco sembra convinto di aver raggiunto la propria meta. Dietro la decisione di sbattere in galera Mayor Ekrem Imamoglu - sindaco di Istanbul e candidato in pectore dell'opposizione alle presidenziali del 2028 - non c'è solo il desiderio di estromettere un rivale. In fondo il voto non è imminente. E in ogni caso per neutralizzare la candidatura dell'oppositore gli sarebbe bastato il decreto che ha dichiarato illegale e cancellato la laurea di Imamoglu.
Dietro la scelta di sbatterlo in galera e affrontare una protesta che porta in piazza decine di migliaia di dimostranti e sabato le opposizioni chiamano a raccolta tutti gli avversari di Erdogan, molti intravvedono la decisione di smantellare definitivamente l'eredità laica e democratica di Kamal Ataturk. Dal punto di vista del cinico e smaliziato presidente il momento non potrebbe essere migliore. Dall'altra parte dell'oceano c'è un presidente che, a differenza di Joe Biden, ha spesso elogiato la determinazione del Sultano. Non a caso Steve Witkoff, l'immobiliarista promosso da Trump a indiscusso mediatore internazionale, non ha esitato a definire «grandi» e «rivoluzionare» le recenti conversazioni telefoniche tra i due presidenti. Se l'attuale amministrazione americana sembra decisamente dalla parte del Sultano, l'Europa, chiamata a misurarsi con le incognite del conflitto ucraino, non è certo nella condizione di frenare le ambizioni autocratiche di Erdogan. Anche perché Ankara ha archiviato da oltre un decennio l'ipotesi di una possibile entrata in Europa. E il presidente turco, nonostante il ritorno a casa di un milione di siriani, ospita ancora un paio di milioni di migranti. Quanto basta per ridurre a più miti consigli i Paesi europei posizionati al termine della rotta balcanica. Ma Erdogan sa anche di essere un interlocutore fondamentale per la soluzione delle principali crisi internazionali. Sul fronte russo-ucraino è l'unico in grado di dialogare alla pari con Kiev e Mosca. E di farlo senza le asprezze riservate a Zelensky durante la visita alla Casa Bianca o la piaggeria esibita da Wittkoff dopo l'incontro con Putin al Cremlino. Ma la centralità negoziale del Sultano non si ferma lì. La sua vicinanza alla Fratellanza Musulmana, il movimento politico religioso da cui nasce anche Hamas, lo rendono interlocutore fondamentale per Gaza. Il colpo di mano con cui ha cancellato la presenza iraniana in Siria trasformando l'ex leader qaidista al Jolani nel nuovo signore di Damasco, gli regalano un peso indiscusso in un Medioriente dove la Turchia è oggi il principale antagonista della potenza militare israeliana.
Senza dimenticare il ruolo di grande protettore del governo libico di Tripoli e di prezioso alleato dell'Azerbajan nello scontro con l'Armenia. Insomma mentre la piazza protesta e il mondo volta la testa il Sultano, forte del controllo assoluto su esercito, magistratura e apparati di sicurezza dorme sonni tranquilli.
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