Bene, incomincio il dialogo con i lettori del Giornale Nuovo e proprio da tanto onore sento che mi deriva un preciso dovere: quello di farmi intendere il più agevolmente possibile. Conviene allora che io chiarisca il mio lessico, non nuovo per tutti (in quanto abbondantemente saccheggiato da più di 30 anni), ma forse per qualcuno ancora insolito al punto da tornare anche ostico. Né questa è faccia di tolla ma, se mi si consente, esemplare modestia, come è vero che deve considerarsi decisamente autoironica la massima: «Io sono il signor tecnico tuo, non avrai altro tecnico all’infuori di me»
Ho enunciato questa boutade altera solo quando mi sono accorto - e ne ho filosoficamente sorriso - che spiegare il fölber non era difficile, bensì inutile o quasi. La più comune reazione del tifoso - a qualsiasi livello culturale e mentale - è la seguente: «Tu scrivi che Rivera (o Suarez, o Bettega) non ha giocato bene, quindi non capisci un’ostia di calcio».
Simili dilettosi atteggiamenti vengono puntualmente corroborati da interventi critici di colleghi onestissimi, e però dimentichi, una grama volta, che gabellare per affermazioni le ipotesi altrui è disonesto. Puoi dire ad esempio: «Se questa Nazionale non cambia, non arriva a superare le colonne d’Ercole, altro che attraccare a Buenos Aires». La nazionale viene puntualmente cambiata ma, al tuo ritorno dall’Argentina, trovi che gran parte dei filistei impegnati a redigere strambotti pedatori ti accusano irridendo di aver mancato il pronostico. Va’ là, Gioann, che vai bene. Chi osa affermare alcunché di preciso in materia calcistica è destinato a sbagliare 7 volte 7, se poi gli va liscia! Non pochi colleghi del ramo usano affermare esattamente il contrario (l’indomani, se capiss) e qualche ingenuo ne ammira la competenza, che invece è ignobile contropiede da stenterelli: in realtà, non sono loro ad avere azzeccato, sei tu ad aver sbagliato come nell’ordine naturale delle cose.
Intanto, una mia rassegnata scoperta è proprio questa, che il calcio è un mistero agonistico. Ma per arrivarci è necessario avere sbagliato millanta volte affermando verità... Inconfutabili: e anche aver giocato, fratelli, come io ho giocato e, se mi si crede, non proprio male.
Obbiezione solita dei cacaminuzzoli che, ignorando il pallone, vi inciamperebbero se per caso se lo trovassero innanzi ai piedi: «Come dire che un critico non può giudicare un romanzo perché lui non ne ha mai scritti». Alt, guanta la maglia!: l’esempio incongruo fino alla pena. Un critico può non saper comporre un romanzo, però deve pur sempre saper scrivere, conoscere la difficoltà di esprimersi, quale che sia la materia.
Conviene dunque definire il calcio, football, fölber o fülbar in Val Padana. Fussball in tedesco, futbol in America del Sud. È un gioco collettivo fondato sul nerbo atletico e sull’istinto prestipedatorio. I suoi schemi sono forme geometriche. L’insieme degli schemi dà luogo al modulo, che è l’impostazione tattica del gioco secondo l’ambiente in cui si pratica, e l’indole dei singoli pedatanti, che un buon tecnico-istruttore deve saper fondere per il meglio. Unisci un asso ad un altro e constati, sorpreso, che si elidono a vicenda; unisci una scartina ad un asso e misteriosamente ne viene un rendimento che esalta. Perché ha tanto successo il calcio? Perché è gioco istintivo: iperbolicamente si può dire che rivaluta le nostre mani posteriori, la cui funzione è stata ridotta nei millenni alle sole necessità dell’incedere eretti. E poi si può giocare, anche da soli, battendo contro una parete qualsiasi: e non v’è dubbio che saper dominare il moto di un corpo rotondo ed elastico entusiasma sempre il bipede uomo, che vede riprodotta nel suo microcosmo familiare la divina armonia dei mondi. Iperbole bieca? Noeh, soltanto giocosa! (...).
Ho già accennato e qui preciso che un individuo si applica al calcio e lo gioca secondo la sua indole particolare, il suo ambiente fisico e culturale, il suo nerbo atletico, la sua potenza (forza+velocità), il suo istinto giocolieristico. Questa enunciazione non è semplice come parrebbe. Ci si arriva ponderando l’etnos di un calciatore, le sue prerogative morfologiche e morali (coraggio, intuito, prontezza di riflessi, disposizione al sacrificio psico-fisico).
Da uno schema di calcio può risaltare o meno la psicologia razziale d’un popolo in rapporto al momento agonistico, agli avversari, al pubblico favorevole e no. Ecco allora che torna indispensabile conoscere la storia nazionale, l’etnia, la cultura specifica di ogni squadra e dell’ambiente nel quale pratica (di casa e anche straniero). Seguire e valutare tecnicamente una partita di calcio è molto difficile per chiunque; e tuttavia il gioco esprime una tensione immediatamente avvertita da chi lo segue: la presa emotiva è certa anche nei più sprovveduti «super gluteos sedentes»; perché non è la sola dinamica del gioco a ispirare la gente, non la sola qualità estetica, bensì anche il sentimento municipale o nazionale, e persino l’istintiva attrazione per un tipo fisico di giocatore al quale ci si vota facendo tifo, cioè soffrendo in stato febbrile. Da questo complesso di fattori deriva la proiezione mitica del pedatare e anche, se permettete, l’insolenza del tifoso che rifiuta qualsiasi giudizio critico non espresso da lui o da quanti altri ne vogliano assecondare il vizio palese (perché non di altro si tratta). Al vecchio collega che si era macchiato di una ingenua colpa storico-letteraria nei confronti del calcio, ho consigliato un titolo da lui accolto con gratitudine: «Storia del gioco più bello del mondo». Reagirono immediatamente gli appassionati di tennis, di rugby, di ping pong e della scopa bestemmiata. Avevano ragione anche loro, nessun dubbio su ciò: ma chi ha delirato ragazzo per il fölber non esce se non debitamente marchiato da quel delirio.
Rubare un semplice ritmo, una forma euclidea, un estro danzato all’armonia dei mondi non è impresa da poco; e poiché il gioco è naturale istinto mimetico, a quel miracolo se ne possono aggiungere altri mille. Io sogno tuttora momenti agonistici dei quali sono osannato protagonista: eroico nell’infliggere, goleando al volo, in corsa, in acrobazia, eroico nell’oppormi a che un altro possa goleare (volando da un palo all’altro, ricevendomi a terra con la felina levità di un leopardo, uscendo con temeraria incoscienza a ghermire la palla nell’istante preciso in cui il piede oltraggioso di Pelè sta indirizzandola a beffarmi nell’angolino).
Anche oggi che ho età nonnesca sento correre un brivido lungo la schiena (dalla nuca al firòn) se incappo in un gruppetto di ragazzini che giocano a palla; qualche volta non resisto all’abietto piacere di elemosinare un tochett, e non è che tutti mi guardino insospettiti: qualcuno, magnanimo, si sgela e perfino commuove: teh, vecc’, stiamo peccando (contro il ghisa del quartiere) ma anche tu, vedo, sei malato del nostro male; alé, vediamo come stoppi. E io impettisco, per via della lordosi, e mettendo avanti la piota cerco a mio modo di domare la palla.
Una volta che palleggiavo con i nazionali (vedi caso, proprio all’Hindou Club di Baires), l’amico Giuseppascia Chiappella mi osservò ridendo che il mio stop era vecchio stile.
Ingrato paìs passaiolo che pure aveva ammirato, al noster temp, il centromediano stoppare palla di tutta suola, e poi rimanerci sopra un istante come un cacciatore che posasse per la foto ricordo!Ahimè, vedo che sono all’ultimo centimetro di piombo. Chiudo con il piacere di riprendere al più presto. Importante era incominciare il dialogo: con tante scuse se le prime battute sono state soltanto mie.
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