Addio al liberismo?

Il liberismo non è finito. Diciamo così: è sospeso. L’idea che le libere interazioni tra miliardi di individui, all’interno di una cornice di regole date, sia preferibile, anche eticamente, alle decisioni di pochi, resiste. L’America di Paulson utilizza gli strumenti del New Deal, ma non è l’America di Roosevelt. Vediamo di capirci. Il rischio che si corre è altissimo. Di fronte ad una crisi finanziaria molto seria l’intervento dello Stato ci sarà.
In una prima fase le autorità americane hanno preso per buono l’insegnamento di Benjamin Strong, presidente della Fed negli anni ’20. Diceva il preveggente Strong: «Per evitare la prossima crisi bancaria occorre inondare le strade di quattrini, di liquidità». Così che le imprese non soffrano del rarefarsi del credito e possano continuare per la loro strada produttiva. Morì nel 1928, la crisi bancaria arrivò e nessuno seguì i suoi insegnamenti: l’America precipitò in un incubo. Questo errore oggi non è stato commesso: le banche centrali di tutto il mondo hanno inondato le strade di liquidità. Ma non è bastato.
La Fed ha poi utilizzato al massimo il suo potere di convincimento: la tal banca si fonda con la talaltra. È il caso di Bear Sterns e poi di Merrill Lynch. Ma non è bastato.
Solo a questo punto si è rotto il meccanismo collaudato e il governo americano ha messo pesantemente i piedi nel piatto. Tirando fuori dal suo portafoglio (sarebbe meglio dire quello dei contribuenti americani) mille miliardi di dollari per comprare carta finanziaria, oggi invendibile, e metterla in un enorme congelatore. Il freddo può far bene, pensano a New York, e finita la tempesta, si possono sciogliere i ghiacci e rivenderli senza perdere. Un meccanismo già adottato dalla presidenza Reagan, che statalista non si può definire.
Arriviamo così al punto fondamentale. L’atteggiamento dell’amministrazione americana è quanto di più lontano ci sia da un posa ideologica. Il quadro di riferimento è quello tipico di una società liberale. Ma il comportamento di tutti i giorni è pragmatico. Si cerca una soluzione e solo il giorno in cui si è trovata si cercano gli eventuali colpevoli. Ma c’è un rischio di fondo in comportamenti di questo tipo. Quando a causa di un’emergenza si sospende il treno del libero mercato è facile che chi lo ha fatto si compiaccia della sua nuova posizione di dominus. La politica tende ad ampliare i suoi spazi e gli ambiti delle proprie decisioni: il processo di riduzione della sua influenza è più difficile. Le due disastrate agenzie Fannie e Freddie nacquero in risposta alla grande crisi immobiliare degli anni 30 e hanno resistito nella loro forma parapubblica fino ad oggi, creando i pasticci di questi giorni. Il problema è dunque di tempi.
C’è un secondo ed ultimo rischio fatale che portano con sé decisioni di intervento come quelle adottate dall’amministrazione Bush: il rischio contagio. Se domani mattina le case automobilistiche di Detroit (non si tratta di un’ipotesi peregrina) chiedessero aiuti per la tragica condizione finanziaria in cui versano, con quali argomenti si potrebbe loro rifiutare un «pezzo di pane». Altrettanto si può dire per la nostra parte del mondo. In Europa non vi è alcun problema sulle regole che governano la finanza. Le nostre banche sono per lo più commerciali e in buona forma. Ma da più parti si sente chiedere maggiore regolamentazione.

Semmai l’impresa europea ha bisogno di meno regole e non il contrario. Ecco. Il rischio contagio esiste ed è forte e non è presente solo nei bilanci delle banche, ma anche nelle teste dei nostri governanti.
Nicola Porro
http://blog.ilgiornale.it/porro/

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