Afghanistan, la battaglia più lunga

Mille talebani fortificati. Uno scontro durissimo durato due settimane e concluso con la morte di 400 ribelli. Così gli americani hanno riconquistato il Sud del Paese

da Garmshir (Afghanistan meridionale)

Tre zombie nella notte, sagome di bunker e trincee nello sfavillio dei pixel, un sentiero, una piazzola. Si fermano, scherzano, cianciano, ignari di quell’occhio nel cielo, di quella ghigliottina sulle proprie teste. «Eccoli», dice il capitano Sean Dynan, 32 anni, comandante della compagnia Alfa, di stanza nella base Apache South, nella provincia di Helmand. Indica il crocchio di turbanti nelle nebbie della telecamera termica. «Sono un comandante talebano e due uomini, sono tra i bunker dove abbiamo perso il caporale William Cooper, non sanno di avere un Uav, un aereo telecomandato sulla testa». Lo schermo s’accende, esplode in un lampo biancastro, cancella le tre figure. L’illuminescenza si spegne. La telecamera termica disegna membra dilaniate, resti di corpi smembrati. Un moncherino senza gambe striscia via, è un bruco ferito in una straziante scia di sangue che va a morir più in là. «Il nostro Uav li ha fatti a pezzi con un missile HellFire, sono lo stesso gruppo che ha ucciso il caporale William Cooper» spiega il capitano. “We got the bastards”, esulta la scritta bianca a tutto schermo. Poi una data, 19 maggio 2008. È la notte più calda per la compagnia Alfa, l’apice della guerra lampo scattata il 29 aprile. In quelle due settimane il 24° corpo di spedizione dei marine chiude in una morsa i mille talebani arroccati nella piana di Garmshir, martella a colpi d’artiglieria le postazioni dei fondamentalisti da ovest, mentre la compagnia Charlie scende da nord e la Bravo spinge da est.
A metà maggio i talebani sono bloccati in un perimetro di una ventina di chilometri, stritolati nella manovra americana. Per la prima volta la Nato, sotto la cui bandiera combattono i marine, sposta le linee nel sud della provincia di Helmand, colpisce le roccheforti del rinato regno talebano. Ma gli uomini del Mullah Omar difendono metro per metro le loro postazioni, resistono alle incursioni aeree e alle martellate degli obici da 155. A metà maggio la compagnia Alfa del capitano Sean si ritrova al centro di una serie di scontri che tre mesi dopo sono già leggenda.
«La vera guerra, quella che si concluderà con l’uccisione di oltre 400 talebani e la loro cacciata da questa zona - ricorda il capitano Sean - inizia a metà maggio quando attraversiamo i canali del fiume Helmand». La gigantesca rete di canali finanziata negli anni Sessanta dal governo americano si è trasformata nel tempo nella giugulare delle coltivazioni d’oppio. La notte del 15 maggio i canali diventano il pertugio da cui insinuarsi alle spalle dei talebani. «Io e i miei 13 uomini guidiamo l’operazione, ci infiliamo nell’acqua fino alle ginocchia, ci allunghiamo su un fronte di 130 metri e aspettiamo - ricorda il 23enne sergente caposquadra Shuh Jeffrey -. Alle sei di mattina le loro voci sono maledettamente vicine. Con due uomini, attraverso l’argine di una piantagione e me li trovo davanti. Ho un talebano a dieci metri. Me lo ricordo come se fosse ora. Ha un camicione marrone, impugna una mitragliatrice, avrà 25 anni, mi squadra come un fantasma, ma è dannatamente veloce, vedo la fiammata, sento la randellata al fianco. Vado giù come un sacco vuoto, sparo a casaccio per coprirmi mentre i miei due uomini aprono il fuoco. Lo vedo mollare la mitraglia, rotolare nel canale. Un altro talebano cade, un terzo fugge. Il mio vice mi chiama: «Sei ferito alla gamba?». «Diavolo - mi dico - allora è vero, sono stato colpito», sento un fuoco al fianco sinistro, come la grattata di una ruspa sulla botta di un calcio di cavallo. «Non alla gamba, al fianco, al fianco». Il vice è sconvolto. «Non muoverti, mando l’infermiere». Infilo la mano sotto il giubbotto, non c’è sangue, la pallottola ha colpito la piastra laterale ed è scivolata via, il paramedico mi si butta addosso, controlla, alza il pollice, mi tira su. Due minuti e sono di nuovo con la mia squadra. Guarda - Shuh alza la mimetica, mostra la macchia scura - tre mesi dopo è ancora lì, ma quella notte non sentivo nulla, ho combattuto come se nulla fosse».
Superati i canali dell’Helmand il capitano Sean e la sua compagnia Alfa fanno i conti con i bunker di Vakil Kamal Kalay. Il primo a sbatterci il naso è il sergente Joseph Buonpastore. Ha 23 anni, suo padre è nato a Matera. Nella lingua paterna balbetta solo «molto duro», poi passa all’inglese perché «con mio piccolo d’italiano impossibile raccontare». Quei bunker per poco non gli costano la vita. «Mentre ispeziono i viottoli del villaggio attraverso un muro e vedo sei bunker di cemento e acciaio. Corro cinque metri indietro, un razzo a spalla Rpg mi esplode di fianco, vado giù, vedo nero, penso al peggio. La mia squadra, la prima del 4° plotone, apre il fuoco di copertura, due paramedici mi tirano indietro, mi risvegliano, ma non ho neanche un graffio. Riprendo il comando della battaglia, ma sembra più un videogioco che guerra vera. I talebani si sporgono dalle fessure nel muro, ci spariamo a quattro, cinque metri di distanza. Tento con le granate a frammentazione. La prima non esplode, la seconda è un canestro perfetto, dritta nella fessura, vedo il boom, sento le urla di un ferito, ma sparano ancora. Va avanti per dieci minuti, siamo inchiodati, non ci muoviamo. Mi passano un tubo lanciarazzi Law (Light antitank Weapons), chiedo di nuovo copertura, salto fuori. Sono cinque metri, ma è buio e devo infilare il missile nella fessura prima che i miei esauriscano i caricatori. Premo il bottone a istinto... whaam! È dentro, salto al riparo, sento le urla, il terrore, la confusione del nemico alle prese con morti e feriti. Ma non si fermano, combattono come dannati.
I miei tentano di uscire, loro hanno già sostituito i caduti, ci sommergono sotto le sventagliate di una mitragliatrice. Chiamo una squadra di cecchini per tirarli giù. Uno si mette a venti metri da me, si espone per sparare, lo colpiscono in pieno. Tre paramedici lo tirano indietro, gli aprono la bocca, vedo un vomito di sangue, due minuti dopo mi fanno segno: il caporale William Cooper è morto. Allora la facciamo finita. Chiedo l’appoggio dell’artiglieria, ci tiriamo indietro». Le batterie da 155 sparano bordate in riga da 25 colpi alla volta. Ma i talebani non mollano. Resistono per ore sotto le bombe. Soltanto quel missile sulle teste di tre loro capi spegne il loro coraggio.

E mentre all’alba iniziano la ritirata le radio dei marine intercettano un messaggio che ne simboleggia la disfatta. «Siamo stati due anni a fortificare quei bunker e gli americani ce li hanno spazzati via in una sola notte».

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