AMÉLIE NOTHOMB La Shoah diventa show

L’ultimo romanzo provocatorio della scrittrice: un reality ambientato in un lager

AMÉLIE NOTHOMB  La Shoah diventa show

Questione di concentrazione. Quattro ore di lavoro, dalle 4 alle 8 del mattino. La giornata lavorativa di Amélie Nothomb si conclude più o meno quando sorge il sole. E sono già quindici anni che la scrittrice belga - di nascita giapponese, di lingua e domicilio francese - afferra la sua penna con «le dita di rosa dell’aurora» e intreccia le trame dei suoi romanzi con le piume dell’allodola mattiniera. Le visioni colte al crepuscolo sono quasi reali e i sogni fatti all’alba sono i più veritieri. L’ultimo sogno di Amélie - Acido solforico s’intitola, uscito Oltralpe a settembre, lanciato in cima alle classifiche alle costole di Michel Houellebecq e ora tradotto da Giovanna Capuani per Voland - è tutto avvolto nell’ambigua commistione tra realtà e finzione: la scena su cui si consuma è il set di un reality show.
Questione di concentrazione. O di «concentramento». Concentration è il titolo della trasmissione in cui, immagina visionaria l’autrice, gli attori concorrenti sono reclutati per le strade di Parigi. Deportati su vagoni piombati fino allo studio di registrazione. Internati in un campo sotto l’occhio vigile di telecamere e kapò. Sottoposti alla giuria di voraci spettatori chiamati a eliminarli a colpi di televoto. «Venne il momento in cui la sofferenza altrui non li sfamò più: ne pretesero lo spettacolo», annuncia profetica la Nothomb, iniziando a raccontare al passato remoto. E il presente se ne adonta: giornalisti, politici, psicologi, produttori tv hanno immediatamente acceso la polemica in Francia sull’innesco della collera di Amélie e dei suoi strali contro la tv. Ma le vendite sono esplose da subito: 260mila copie nel primo mese. Ha colpito ancora una volta nel segno - per la quattordicesima volta: tanti sono a ora i suoi titoli - l’insonne scrittrice. Che, a vederla (era a Venezia ieri, oggi è a Roma), con le sue gonne lunghe, gli ampi cappelli, i guantini tagliati alle dita, gli stivaloni da amazzone ha l’aria d’una fata furbina, un folletto agitato.
Amélie, mai abbandonata la vecchia abitudine? Sempre sveglia alle quattro, e subito con la penna in mano?
«Sempre. Tutti i giorni. Anche quando sono in vacanza. O in viaggio. Anche oggi».
Come comincia la giornata?
«Mi alzo e mi preparo mezzo litro di tè molto forte. Lo mando giù alla svelta per avere la dose di energia cerebrale necessaria. Entro allora in una sorta di stato febbrile, che dura quattro ore. È un momento molto eccitante».
Non rischia la sorte della sua Zdena, che nel campo di Concentramento ha il ruolo della kapò e, oscuramente attratta dalla bella prigioniera Pannonique, «ci perse il sonno». Va a dormire presto? Guarda mai i reality show in tv?
«No, non mi corico presto. Vado sempre a letto tardi. E non ho la tv».
Quando «la sofferenza altrui non li sfamò più, ne pretesero lo spettacolo», scrive in Acido solforico. È ancora questione di fame. Ha scritto in forma di romanzo una (auto)Biografia della fame l’anno scorso. E quattro anni fa in Metafisica dei tubi raccontava di aver scoperto il piacere succhiando un quadratino di cioccolato bianco. Ci si può saziare di fiction?
«No, di fiction non ci si sazia mai».
Ed è ancora una questione di “tubi”. Nel romanzo “metafisico” era quello del lavandino: chi accetta ogni cosa non è più vivo del suo orifizio, scriveva. Adesso c’è il tubo catodico nel mirino. Ma «ribellarsi non giova, sarebbe stato telegenico», dice la sua eroina. È telegenica l’indignazione di Amélie Nothomb?
«No, non trovo che sia telegenica. Sono furente contro la telerealtà. Ma la mia ribellione non va in onda sul teleschermo: credo nel potere della scrittura».
Il testo è immaginifico e pieno di azione. In che genere di spettacolo preferirebbe vederlo trasposto: una tragedia alla Corneille, un film antiutopistico, un dramma filosofico?
«Non sono contraria all’idea di una trasposizione. È già stato fatto con altri miei testi e preferisco sempre che ci pensi qualcun altro. Non ho preferenze di genere. E non tengo a una drammatizzazione di questo testo in particolare».
«È finita l’epoca delle finzioni e del buonismo», scrive. È un auspicio? Un invito al cattivismo?
«Ma quella frase esprime il proposito di uno degli organizzatori della trasmissione tv. L’intenzione è la sua, non la mia».
«Conta solo il rispetto del pubblico», scrive. Come immagina il suo pubblico, se lo immagina quando scrive? È lo stesso pubblico della tv? Ne ha rispetto?
«Non immagino affatto il mio pubblico. Non ci penso per niente mentre scrivo. Ci penso quando pubblico un libro. Tutti sono il mio pubblico. E io li rispetto profondamente».
«L’inferno esiste, e noi ci siamo già», scrive. La frase non suona profetica, perché è coniugata al presente: che cosa ne ha fatto un inferno?
«Il disprezzo generalizzato. La deriva della comunicazione, del medium televisivo snaturato dal marketing».
«A me questo inferno piace» è la risposta a quella frase. Le piace l’inferno della finzione?
«È la risposta di Zdena, non la mia. Non potrei mai amare l’inferno in cui viviamo, lo trovo brutto e volgare».
Ma il personaggio di Amélie Nothomb è oltremodo istrionico. Figura pubblica di larga fama e grande successo: come vive la celebrità, il ruolo di protagonista nella fiera della comunicazione e nel circo dei media?
«Non sono né mi sento un’attrice nella vanity fair dei media».
E il suo look? Abiti, copricapi e calzature desueti, stravaganti?
«Vesto sempre così, ogni giorno e non per una posa. Non ci sto a pensare molto. Scelgo i vestiti che trovo belli».
E come reagire all’inferno di cui sopra? Lei è severissima con i suoi strali. La satira, un sano umorismo non sarebbero ugualmente efficaci?
«Lo humour non basta. Ma non credo di essere così severa. In fondo quello che propongo di fare è cambiare canale o spegnere la tv. È così semplice...».
E l’azzardo di allestire un set nei campi di concentramento. Qualcuno se ne è offeso? Quelle immagini, vagoni piombati, baracche, campi di lavoro, pasti magrissimi, codici al posto dei nomi, kapò: non fa un inquietante effetto di cliché, di immaginario fatuo e televisivo?
«Ho ricevuto lettere di sopravvissuti dei campi della morte. E sono le lettere più belle, le più entusiastiche che mi siano arrivate dopo la pubblicazione di Acido solforico».
I suoi personaggi: Pietro Livi è Primo Levi? Zedna è il personaggio di Kundera? Pannonique chi è?
«Primo Levi è evidente. Pannonique è Pannonia, l’antico nome dell’Ungheria, tra i paesi in cui le vittime della Shoah sono state più numerose. Anche Kundera è evocato per la sua attenzione all’universo concentrazionario».
«Aveva 20 anni e un volto incantevole, una bellezza terrificante», scrive del volto magnifico di Pannonique.

Lei di anni ne ha quasi quaranta, ha sempre un volto incantevole e quest’anno lo ha visto riprodotto al Museo Grevin: che impressione le fa la sua statua di cera?
«Davanti alla statua ho provato: grande stupore e profondo turbamento. Mi fa paura!».
E, fanciulla prodigio, precocissima nella scrittura, non teme il passare del tempo?
«Il tempo che passa... che stranezza. A volte ho l’impressione di avere mille anni. È bizzarro».

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