Un amore inatteso come antidoto al declino della giovinezza

«Essere trattata con indulgenza immotivata mi ha sempre messo a disagio. Invece essere trattata con imparzialità è una bella cosa». È una bambina di carattere, Omachi Tsukiko. Ma una bambina sui trent’anni. Per questo, quando incontra il suo vecchio professore, Matsumoto Harutsuna, è come se fossero passati, parallelamente, su due piani temporali differenti, un giorno e un secolo: il professore è ancora professore, certo, ma, nel frattempo, nel personale universo della donna ora si manifesta come guida spirituale, come amico, come padre. In una parola, come uomo. Di uomini, di «fidanzati», lei ne ha avuti più d’uno. Però sono tutti volati via, lasciandola nello stato d’animo, come direbbe un antico poeta, «di un ventaglio in autunno».
La cartella del professore, di Kawakami Hiromi (Einaudi, pagg. 188, euro 18,50, che poi sarebbe Gli anni dolci nella versione a fumetti, di Jirò Taniguchi, uscita da Rizzoli Lizard), è la storia d’un amore fluttuante, ondivago, umorale, profondo. Un amore scandito dalle stagioni come una collezione di haiku, dai piatti consumati in due nel solito ristorantino, dalle passeggiate, da qualche giornata diversa dalle solite, a cercar funghi in montagna, o a fare escursioni sulla piccola isola dove, nel cimitero che sembra una casa di bambole, riposa la moglie del «prof». Così lo chiama sempre Tsukiko, «prof», ed è l’omaggio inconscio alla dimensione dell’adolescenza, l’unico bene prezioso che le resta. «L’amore - le diceva sempre una sua prozia - più o meno si riduce a questo: cresce perché lo nutri». E Tsukiko, al culmine di una fra le tante interruzioni apparentemente casuali del rapporto con lui, medita: «Secondo la sua logica \, bastava che stessi per qualche tempo senza incontrare il professore, e sarei probabilmente riuscita a far inaridire il mio sentimento per lui».
Nelle pagine di Kawakami c’è una grazia innata che ci riporta alla leggerezza di Kawabata, quando poche incisive pennellate le bastano per darci il ritratto di un pomeriggio o di una notte. E c’è anche la nonchalance ironica di Tanizaki, negli incontri che si vorrebbero terapeutici (nel senso che così, sotto sotto, li intende lei, Tsukiko) della donna-bambina con un compagno di liceo, ennesima ipotesi di dolce e virile compagno che presto si rivela, esattamente come gli altri, omeopaticamente inadatto a placare la sete di sake e di tenerezza. Ma sotto lo sconfinato affetto (per quanto frenato dalle convenzioni sociali e dal timore di far del male) nei confronti di un anziano burbero e stanco, nell’animo della sua allieva, giunta sul crinale di una collina oltre la quale già intravede le ombre del declino solitario, avviene una mutazione genetica: la consonanza di gusti, caratteri e abiti mentali diventa amore vero, ostinato, indelebile. La gelosia per un’anziana ma ancora piacente professoressa... Il pensiero torrenziale che risale sempre alla fonte lontana... L’essere in due quando si è da soli... Segnali inequivocabili che percorrono, come impulsi elettrici, la grande città là fuori, estranea e indifferente.


E quando finalmente anche la carne, dopo il cuore e la testa, si piega alla causa di forza maggiore, ecco che i tempi del romanzo, richiamati all’ordine dalla Natura crudele, tornano a fondersi nell’unico che vale per tutti. La Morte taglierà il nodo gordiano del legame fra Tsukiko e il suo «prof» o, al contrario, ne sarà la definitiva certificazione? È questa l’unica domanda cui l’Amore non sa rispondere.

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