Non lo vedevo da molti anni, e mi ero ripromesso di andarlo a trovare con la preoccupazione di vederlo, lui sempre giovanile, in uno stato fisico presumibilmente debilitato. Come mi era capitato qualche anno fa con un altro illustre collega, Dario Durbé, visto poco prima della sua malinconica morte.
Ho sempre avuto considerazione per Maurizio Calvesi, anche in anni difficili, quando la storia dell'arte, prima di essere una ancella del mercato, era una frontiera politica. Io sono sempre stato politicamente e storicamente scorretto. Calvesi era intelligente, senza pregiudizi verso gli uomini. Il suo nome, per le apprezzate ricerche, fino alle ultime sul Bosco sacro di Bomarzo, voleva dire studi originali su Giorgione, su Francesco Colonna, sull'Hypnerotomachia Poliphili. Era l'ultimo studioso di una generazione di grandi: Longhi, Brandi, Argan. L'ultimo di quella scuola, rispettabile, sottile, ironico, sofisticato. L'ultimo maestro.
Calvesi è stato, altresì, il primo studioso italiano a mettere in luce, nel campo artistico, le componenti riconoscibili e misteriose dell'ermetismo rinascimentale, a introdurre nella ricerca critica spunti della psicologia freudiana e junghiana e, con Eugenio Battisti, a studiare fin dagli anni Cinquanta l'iconologia. Integrando questi strumenti all'analisi formale e attributiva, nonché all'indagine di archivio, ha inaugurato un metodo che ha portato contributi innovativi, non di rado radicali, alla conoscenza di artisti come Piero della Francesca, Giorgione, Dürer, Caravaggio, Piranesi, Boccioni, Duchamp, de Chirico. Alla sua scuola, anomala per l'Italia, si formò un piccolo gruppo di iconologi, guidati dal profetico Augusto Gentili (autore del memorabile Da Tiziano a Tiziano). Calvesi, rispetto agli altri maestri, aveva una qualità: era più giovane e curioso del suo tempo, ed era più attrezzato della generazione dei primi critici militanti agguerriti degli anni della mia formazione, a partire dal 1970: Renato Barilli, Achille Bonito Oliva, Germano Celant.
Era uno storico dell'arte compiuto e totale, come il mio maestro Francesco Arcangeli, di qualche anno più anziano. Si conoscevano, erano di scuole diverse, ma credevano che la storia dell'arte fosse un continuum, senza una interruzione, senza uno spartiacque, senza una fine del mondo. Avevano potuto, diversamente da altri già dimidiati, come sui due fronti Andrea Emiliani ed Eugenio Riccomini o Bonito Oliva e Celant, avanzare convinti che non ci fosse una interruzione e una ripartizione conoscitiva tra storico dell'arte e critico militante. L'arte è una sola. Come io avrei scritto molti anni dopo: «tutta l'arte è contemporanea». Così gli era consentito, con la stessa autorevolezza, scrivere di Giorgione e di Pino Pascali, di Caravaggio e di Gino De Dominicis, essendo autore referenziale in qualunque epoca.
Nel 1998 ci trovammo, come ancora siamo, membri dell'Associazione Gino De Dominicis, per stabilire come tener viva non la memoria, ma l'eredità di un artista difficile e intelligente, forse il più complesso e originale dei contemporanei. Calvesi, dopo essere stato ispettore storico dell'arte alla Soprintendenza di Bologna, e poi direttore della Pinacoteca Nazionale di Ferrara, quindi volto agli studi sul Rinascimento, si è aperto alla modernità, rivalutando, con Maurizio Fagiolo dell'Arco e Giovanni Lista, il Futurismo italiano, affossato in una retroguardia fascista. I suoi studi, dal Futurismo alla Pop Art, furono raccolti in un testo fondamentale per la mia generazione: Le due avanguardie, uscito in anni cruciali (1966, prima edizione Lerici; 1970, seconda edizione Laterza). Da lì in avanti Calvesi alternò, strategicamente, i suoi interessi fra artisti contemporanei, come Vasco Bendini (condiviso con Francesco Arcangeli), e artisti storici, come i Carracci (studi e mostre tra il 1963 e il 1966). Nel 1970 pubblicò uno studio organico sul Futurismo e, nel 1971, la prima monografia su Alberto Burri. Nella sua mente si intrecciavano Duchamp (1975) e il Polifilo (1980), Boccioni e Giorgione, ma anche Caravaggio e Kounellis. Sulle seconde avanguardie fu particolarmente presente, contribuendo a definire la figura, poi logorata in «curatore indipendente», del critico militante, coronata con la direzione di due Biennali di Venezia. È stato tra i primi e più autorevoli critici a interessarsi della neo-avanguardia e di artisti cruciali come Afro Basaldella, Alberto Burri, Mario Ceroli, Pino Pascali, Mario Schifano.
Quando il mondo dell'arte iniziò a cambiare (e io vi contribuii portando al centro della Biennale di Venezia del 1980, con la direzione di Luigi Carluccio, il grande Balthus), Calvesi fu pronto a riconoscere la generazione dei nuovi artisti nei pittori figurativi cosiddetti «citazionisti», a partire da Carlo Maria Mariani: Bruno D'Arcevia, Paolo Bertocchi, Stefano Di Stasio, Alberto Abate, Ubaldo Bartolini, Lorenzo Bonechi, Paola Gandolfi, Omar Galliani. Sulla sua strada trovò, sfrontato e prepotente, con il concorso di un mercato favorevole, Achille Bonito Oliva, che sostenne il gruppo della Transavanguardia. Timidamente si opposero, con le loro squadre, Renato Barilli, Flavio Caroli e, con un gesto perentorio e travolgente, Giovanni Testori. Non ci fu partita e, con le riserve di isolati come Ruggero Savinio, Riccardo Tommasi Ferroni, Gino De Dominicis, Wainer Vaccari e i quattro di Plinio De Martis (Franco Piruca, Maurizio Ligas, Aurelio Bulzatti e Lino Frongia), il gruppo della Transavanguardia prevalse e occupò tutto il campo, ponendosi dietro la falange, già portata da Celant, del gruppo dell'Arte povera.
Non fu sufficiente lo sforzo di Calvesi di risalire all'anacronista per eccellenza, che fu Giorgio de Chirico, cui si dedicò con Maurizio Fagiolo dell'Arco anche per predisporre un retroterra ai giovani artisti «colti». Il risultato benefico, anche da queste faide, tentando di recuperare autorevoli ancêtres (Donghi, Scipione, Ziveri), fu la rivalutazione della Scuola romana, cui si applicarono, con Calvesi, Maurizio Fagiolo dell'Arco, Antonello Trombadori e, più giovane ma non meno agguerrito, Fabio Benzi. In quegli anni fertili, tra i '70 e i '90, si pongono gli studi sul primo Novecento, e anche sulle arti applicate, di Mario Quesada, Anna Maria Damigella, Maria Paola Maino e Irene De Guttry. Calvesi, in questo clima, è un motore immobile al centro di una rinnovata considerazione dell'arte del Novecento.
Fin qui i suoi meriti. Su un altro versante, come ogni studioso romano, Calvesi fu attratto e si occupò di Caravaggio. Dopo Roberto Longhi, seguito da Mina Gregori, sua allieva, il campo caravaggesco fu stabilmente presidiato da Maurizio Marini, compianto studioso pieno di vitalità ed energia, sostanzialmente un interprete laico capace di riconoscere in Caravaggio la verità delle emozioni e della vita degli uomini. Il primo pittore lontano da Dio, dentro la tradizione cristiana. Non so se la sua visione si possa ritenere evangelica. Per Calvesi alla immagine del pittore maledetto, insofferente di ogni vincolo sociale e religioso, istintivo e sregolato, precoce e bizzarro, va sostituita quella di un artista consapevolmente calato nel proprio contesto storico, animato da una profonda religiosità, coerente nelle sue scelte, che sono perfettamente corrispondenti alla cultura teologica, letteraria e filosofica del suo tempo. In altri termini, un pittore passionalmente impegnato nell'affermazione di nuovi principî e valori umani e sociali, e che rappresenta la verità intesa come evangelica povertà: a suo modo il messaggio socialmente progressivo di alcuni riformatori della Chiesa, come Carlo e Federico Borromeo, Filippo Neri, il Baronio e gli Oratoriani. Si tratta di una estensione della definizione da «Caravaggio, pittore della realtà» a «Caravaggio, pittore delle realtà», plurali.
Calvesi apre così la strada a una interpretazione più ideologica, con suggestioni nuove. D'altra parte si era laureato nel 1949 con una tesi su Simone Peterzano, il maestro di Caravaggio e, con il tempo, aveva approfondito i collegamenti fra i due pittori. Ha aperto la strada.
Soltanto qualche mese fa, e purtroppo con i disagi di una troppo precoce chiusura, la città di Bergamo ha dedicato una importante mostra a Peterzano, in un percorso che va da Tiziano a Caravaggio. Anche nella ricerca filologica Calvesi è stato all'avanguardia.
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