Artemisia e la pittura come virile femminismo

Dalla violenza subita a quella rappresentata Ritratto di una donna geniale e coraggiosa

Artemisia e la pittura come virile femminismo

Bisogna dire che, dominanti nel gusto e nella sensibilità comune i pittori del Rinascimento, e, nell'arte, gli strepiti dei futuristi e il silenzio della pittura metafisica, fu certamente un atto di grande indipendenza e sensibilità premonitrice, nel 1916, l'apertura di Roberto Longhi alla pittura di Caravaggio, e prima ancora, e più sorprendentemente, alla caravaggesca Artemisia Gentileschi: «L'unica donna in Italia che abbia mai saputo che cosa sia pittura, e colore, e impasto, e simili essenzialità... Nulla in lei della peinture de femme che è così evidente nel collegio delle sorelle Anguissola, in Lavinia Fontana, in Madonna Galizia Fede... Ma vien voglia di dire questa è la donna terribile! Una donna ha dipinto tutto questo!... che qui non v'è nulla di sadico, che anzi ciò che sorprende è l'impassibilità ferina di chi ha dipinto tutto questo ed è persino riescita a riscontrare che il sangue sprizzando con violenza può ornare di due bordi di gocciole a volo lo zampillo centrale! Incredibile vi dico!». Una vera folgorazione, descrivendo il più noto forse dei capolavori di Artemisia, Giuditta e Oloferne (conosciuto in due versioni), che apre un mondo nuovo, la cui fertilità feconderà un intero secolo di studi e di scoperte.

Longhi, veramente come un profeta, manderà luce nella notte del Seicento, con illuminazioni che rivoluzionano la storia dell'arte. La fortuna di Caravaggio e dei caravaggeschi nasce con Longhi, e ha poco più di cento anni. Ne sono annunci gli studi sul cavalier calabrese Mattia Preti, a margine delle celebrazioni per il terzo centenario della nascita (1613), volute da Alfonso Frangipane a Catanzaro, e quelli sui Gentileschi, Orazio e Artemisia, di cui Longhi riconosce il diverso ma equanime valore. Orazio aveva scelto di vivere a Roma nel momento giusto, al deflagrare della rivoluzione caravaggesca, cui aderisce con entusiasmo, pur essendo più vecchio di Caravaggio e di origine toscana. Testa fredda e cuore caldo, Orazio è un pittore di bellezza infinita; il suo limite è la raffinatezza, l'amore per le sete, gli ornamenti e i gioielli, come solo Lorenzo Lotto (certamente conosciuto negli anni marchigiani) aveva conosciuto. L'amore del padre si trasferisce alla figlia, prodigiosa nella intuizione e nella intelligenza.

Roma era per Orazio e Artemisia un teatro, come lo fu per lo stesso Caravaggio che arrivò soltanto tre anni dopo la nascita di Artemisia (1593) e, come il padre e la figlia, rimase travolto dalla grandezza della città antica e dalla potenza della città moderna che si arricchiva di palazzi e di chiese, rinnovando, nel tempo del Rinascimento, la città medievale, anche grazie alla spinta di due papi fiorentini, Leone X e Clemente VII, della famiglia de' Medici. Bambina, Artemisia si muoveva nello studio del padre e probabilmente vide anche il giovane e spavaldo Caravaggio. Aveva certamente un temperamento maschile ed era spinta da ammirazione ed emulazione per il padre che la introdusse al mestiere. Prima del 1610, la data che leggiamo nella Susanna e i vecchioni di Pommersfelden, sicuramente lavorò con impegno nella bottega del padre, il quale, ancora nel 1612, scriveva, della figlia, alla granduchessa di Toscana: «Questa femina, come è piaciuto a Dio, havendola drizzata nelle professione della pittura in tre anni si è talmente appraticata che posso adir de dire che hoggi non ci sia pare a lei, havendo per sin adesso fatte opere che forse i prencipali maestri di questa professione non arrivano al suo sapere».

Sono importanti valutazioni estetiche, potremmo dire critiche, che affermano il valore di Artemisia davanti alle opere, anche se non si può negare che i clamorosi eventi della vita, in particolare la violenza subita dall'amico del padre, Agostino Tassi, detto «lo Smargiasso», pur nella negatività, abbiano contribuito alla sua leggenda. È proprio Orazio che, non dubitando dell'amico, dopo l'apprendistato, gli affida Artemisia, mentre lavorano insieme nella sala del Casino delle muse in palazzo Rospigliosi. Virtuoso nella prospettiva, Tassi era sanguigno, facinoroso, pronto alla rissa; la giovane Artemisia era bella e di liberi costumi, e Agostino le rivolse subito le sue attenzioni fino a farle violenza.

Lo stupro si consumò nell'abitazione dei Gentileschi, in via della Croce, con la compiacenza di Cosimo Quorli, furiere della camera apostolica, e di una certa Tuzia, vicina di casa che, in assenza di Orazio, era solita accudire la ragazza. Artemisia descrisse così l'accadimento, con un ritmo incalzante: «Serrò la camera a chiave e dopo serrata mi buttò su la sponda del letto dandomi con una mano sul petto, mi mise un ginocchio fra le cosce ch'io non potessi serrarle et alzatomi li panni, che ci fece grandissima fatiga per alzarmeli, mi mise una mano con un fazzoletto alla gola et alla bocca acciò non gridassi e le mani quali prima mi teneva con l'altra mano mi le lasciò, havendo esso prima messo tutti doi li ginocchi tra le mie gambe et appuntendomi il membro alla natura cominciò a spingere e lo mise dentro. E li sgraffignai il viso e li strappai li capelli et avanti che lo mettesse dentro anco gli detti una stretta al membro che gli ne levai anco un pezzo di carne».

La sua testimonianza è di impressionante evidenza, e ha una icasticità caravaggesca. Agostino dovette però essere abile, e inizialmente la ammansì con la promessa di sposarla. Artemisia cedette alle lusinghe e si comportò more uxorio, continuando a intrattenere rapporti intimi con lui, nella speranza del matrimonio. Orazio, dal canto suo, tacque sulla vicenda, nonostante Artemisia l'avesse informato sin da subito. Fu solo nel marzo del 1612, quando la figliola scoprì che Tassi era già coniugato, che papà Gentileschi indirizzò la sua querela a papa Paolo V. Cominciò così il processo, nel quale Artemisia mostrò grande coraggio e determinazione, pur con una società e un diritto tendenzialmente avversi, pronti a riconoscere le responsabilità prevalenti della donna. Artemisia fu sottoposta anche a tortura per accertare la verità, e un notaio fu chiamato per attestare la lacerazione dell'imene. Il supplizio a cui fu sottoposta era quello cosiddetto dei «sibilli», che consisteva nel legare i pollici con cordicelle che si stringevano sempre di più sino a stritolare le falangi. Artemisia avrebbe rischiato di perdere le dita. Beffarde furono le parole che rivolse ad Agostino Tassi quando le guardie le stavano legando le dita con le cordicelle: «Questo è l'anello che mi dai, e queste sono le promesse!».

Il 27 novembre 1612 Tassi fu condannato a cinque anni di reclusione o, in alternativa, a sua scelta, all'esilio perpetuo da Roma. In realtà riuscì a eludere, grazie alle sue protezioni, entrambe le misure. Artemisia vinse il processo ma compromise la sua reputazione, fino a venire considerata una «puttana bugiarda che va a letto con tutti». Artemisia affrontò questa vicenda con grande consapevolezza, traendo considerazione dall'incidente, fino a diventare moderna protagonista del romanzo di Anna Banti, la moglie scrittrice di Roberto Longhi. Il Novecento l'attendeva, dandole il più ampio credito, artistico e umano. Il 26 novembre 1612, il giorno dopo la fine del processo, Artemisia si sposa con Pierantonio Stiattesi, modesto pittore, con la benedizione del padre Orazio. Si trasferisce così a Firenze, lontana dal padre e dal passato drammatico. Grazie allo zio Aurelio Lomi entra nella corte di Cosimo II de' Medici, dove ha rapporti con Galileo Galilei e Michelangelo Buonarroti il giovane, nipote del grande artista. Fu Michelangelo a introdurla nel mondo fiorentino e a commissionarle, per casa Buonarroti, la luminosa Allegoria della inclinazione, databile al 1616, l'anno in cui Artemisia fu ammessa all'Accademia del disegno.

Dopo questo soggiorno, anche per le difficoltà con il marito, Artemisia ritorna a Roma nel 1620, e si ritrova nel fertile ambiente del caravaggismo, vedendo Simon Vouet, Valentin de Boulogne, Ter Brugghen, Ribera, Massimo Stanzione, Bartolomeo Manfredi, lo Spadarino, Michel Tournier, Bartolomeo Cavarozzi, con i quali si misura alla pari. Le sue opere documentano una ossessiva rievocazione della violenza, sia nell'esaltazione di eroine come Giuditta, sia nella identificazione con le vittime, cui attribuisce il proprio volto turbato, disturbato, umiliato: Caterina, Lucrezia, Cleopatra. La sua fama cresce, e la troviamo tra il 1627-30 a Venezia. La sua maggior fortuna è a Napoli, a partire dal 1630. Qui trova, insieme ai pittori già conosciuti a Roma, anche Domenichino e Giovanni Lanfranco. Collabora con Massimo Stanzione e dipinge, tra 1636 e 1637, tre grandi tele per la cattedrale di Pozzuoli, soggetti religiosi che si affiancano alle eroine femminili Giuditta, Susanna, Betsabea e Maddalena. Nel 1638 è a Londra presso la corte di Carlo I, dove ritrova il padre Orazio diventato pittore di corte, ammiratissimo. Con il padre, Carlo I voleva anche la figlia, la cui fama lo aveva indotto ad acquistare l'Autoritratto in veste di pittura.

Nel 1642

Artemisia lascia l'Inghilterra e torna a Napoli, dove continua a dipingere con crescente solennità (Susanna e i vecchioni oggi a Brno, del 1649, e Madonna col bambino e il rosario all'Escorial, del 1651), e dove muore nel 1653.

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