Artista famoso cercasi per distruzioni d’autore

Cosa farebbero gli scrittori se fossero sindaci delle loro città? C’è chi riaprirebbe la centrale nucleare e chi farebbe nuove piste ciclabili. Ma anche chi dice: «Le metropoli sono piene, ora occorre togliere»

Improvvisamente tutti scrivono di città. Negli anni Novanta l'antropologo Marc Augé inventò i non-luoghi e sembrò che per i luoghi fosse finita. Invece in questi anni Zero spunta una voglia di radici, di vecchie pietre, e tanti scrittori che furono giovanilisti si convertono all'erudizione localista. Caso emblematico quello di Giuseppe Culicchia: in breve volgere di tempo ha pubblicato ben tre libri sulla sua Torino, due dei quali per Contromano, la collana Laterza che ha sfidato i quarantenni a cimentarsi nella descrizione delle città. Rifiorisce la tradizione novecentesca del viaggetto in Italia: che ne siano consapevoli o meno gli antenati dei Culicchia e dei Trevi sono i rondisti degli anni Venti, i Baldini, i Barilli, i Cardarelli.
I contemporanei scrivono meno bene, non c'è bisogno di dirlo, quella era l'epoca della bella pagina e questo è il tempo delle mail, ma lo sguardo su bellezze e brutture urbane non è meno partecipe. Non ci sono soltanto gli autori laterziani: in questo momento ad appassionarsi al tema città sono un po' tutti, giovani e meno giovani, uomini e donne, perfino gli eterei poeti. La poesia centrale del nuovo libro di Patrizia Cavalli si intitola «Aria pubblica» e denuncia il degrado delle piazze del centro storico di Roma. E Valentino Zeichen ormai non pubblica niente senza la Capitale in copertina ad annunciare l'argomento.
Noi li abbiamo presi sul serio, questi nuovi cultori delle geografie patrie, al punto da invitarli a passare dalla critica alla proposta. Con il gusto un po' sadico di vedere se, almeno a parole, riescono a cavarsela meglio di tanti amministratori locali (non dovrebbe essere così difficile). A ognuno di loro - sono 14 - abbiamo posto una domanda responsabilizzante: Se tu fossi sindaco quale sarebbe la tua prima iniziativa urbanistica?
Qualcuno è andato un poco fuori tema, per esuberante passione civile. Antonio Pennacchi è contrario all'esistenza stessa dei sindaci: «Basterebbero i prefetti». Ma qualora venisse costretto con la forza a guidare la sua Latina tralascerebbe panchine, fontane e frivolezze consimili per dedicarsi a qualcosa di molto più hard: «Rimetterei in funzione la centrale nucleare di Borgo Sabotino, chiusa da dieci anni, e farei costruire un termovalorizzatore». Pennacchi, vecchio operaio, è coerente con l'industrialismo che trasuda dal titolo del suo ultimo libro, Shaw 150, il nome di un macchinario per la produzione di cavi elettrici. Con Roberto Alajmo, autore di Palermo è una cipolla (Laterza), ritroviamo il tipo dello scrittore sensibile all'estetica: «Se avessi pieni poteri condannerei a morte l'inventore dei sarcofagi pubblicitari che il Comune ha fatto mettere a ogni angolo di strada». Come come? «Sono parallelepipedi di cemento grigio che all'inizio ospitavano fiori, subito scomparsi. Purtroppo non è scomparsa l'enorme vela pubblicitaria che svetta su ogni parallelepipedo. Sono centinaia in tutta Palermo».
I problemi dell'arredo urbano perseguitano le città del Sud come quelle del Nord, dando vita a polemiche tanto lunghe quanto sterili. Milano non è mai riuscita a liberarsi di certe sculture sgraziate che ingombrano molte sue piazze. In compenso la scultura più bella non la nota nessuno perché troppo piccola rispetto all'immenso piazzale della Stazione Centrale dove è collocata. L'ha notata Camilla Baresani che abita lì vicino: «È una meravigliosa scultura di Marino Marini che necessita di uno spazio ristretto. Se fossi sindaco di Milano farei uno scambio Marini-Rossi: smonterei il monumento di Aldo Rossi che con le sue dimensioni soffoca la fermata Montenapoleone della metro, lo rimonterei vicino alla stazione e al suo posto metterei la scultura di Marini. Le proporzioni sarebbero finalmente rispettate».
«Fossi eletto sindaco di Milano darei le dimissioni» dice Luca Doninelli, che per non peccare di ottimismo ha intitolato Il crollo delle aspettative il suo libro sulla Capitale del Nord. «Ma prima farei correggere la voce registrata della signorina che quando l'autobus arriva a piazzale Dateo annuncia piazzale Tadeo. Sbaglia il nome del piazzale da anni: certo ci sono problemi più importanti ma il fatto che nessuno abbia mai corretto la registrazione per me è un segno tremendo». L'ultimo coniglio uscito dal cilindro del mago Castelvecchi si chiama Pulsatilla e ha dedicato a Milano un capitolo del suo libro da esordio e da classifica, La ballata delle prugne secche. Urge sentire il parere della novella scrittrice: «Farei piste ciclabili. A Milano, ma anche a Roma, chi va in bicicletta rischia la vita, quei pochi che si azzardano devono vestirsi paramilitare, con le ginocchiere. In Germania e in Austria ci sono piste ciclabili ovunque, sia in città che in campagna, e ho potuto pedalare da Passau a Vienna senza mai rischiare la collisione con un'automobile». La mobilità sta a cuore anche a Silvio Perrella che se fosse al posto di Rosa Russo Jervolino aprirebbe quattro nuove funicolari, perché ormai a Napoli ci si può muovere solo in verticale. Roberto Saviano chiamerebbe artisti famosi ma non per realizzare opere d'arte bensì per farsi indicare qualcosa da distruggere: «Sarebbero distruzioni d'autore. La città ormai è satolla, non bisogna più aggiungere niente, bisogna togliere».
Si immagina sindaco abbattitore anche Giuseppe Culicchia: «A Torino per prima cosa butterei giù il Palazzaccio, il palazzo che rovina la vista del Duomo e della Porta Palatina». Costruttore invece Aurelio Picca, se diventasse sindaco di Urbino (ipotesi improbabile visto che le critiche alla città contenute nel suo Via Volta della Morte hanno innervosito gli urbinati). «In piazza Mercatale farei una grande piscina di acqua salata con dentro i pesci dell'Adriatico. Sarebbe un'opera all'altezza di Federico da Montefeltro, signore visionario che voleva dare a Urbino uno sbocco al mare e nel suo palazzo fece costruire scale a forma di conchiglia». Giordano Tedoldi come sindaco di Roma eviterebbe invece ogni volo pindarico: «Farei il contrario di quello che suggeriscono i poeti, i giornalisti, gli scrittori e tutta quella gente che ha la sprezzante abitudine di giudicare ogni cosa da una cattedra di estetica. Non voglio una città in rima, in sonetti o in endecasillabi». Sulla stessa linea Valentino Zeichen che pur essendo poeta per l'occasione diventerebbe prosaico. Trasformerebbe in abitazioni le tante caserme dimesse che ci sono a Roma, affittandole a basso costo a chi non ha una casa. «Sarebbe meglio che farne dei musei perché l'arte moderna è morta». Zeichen ha una situazione abitativa precaria e parla anche pro domo sua. Un po' come Patrizia Cavalli, che abitando vicino al chiassoso Campo de' Fiori se eletta sindaco limiterebbe i tavolini all'aperto e gli orari di apertura dei locali: «Sono rimasta estasiata dai meravigliosi silenzi della Germania. A Berlino dopo le undici di sera nessuno schiamazza fuori dai locali. A Roma invece si è dato l'impressione che tutti possano fare tutto quello che vogliono a tutte le ore. Per questo mi è venuta una grande ammirazione per Cofferati». Il sindaco di Bologna, a differenza di Veltroni, sta cercando di porre un freno alle intemperanze dei tanti fuorisede e fuori di testa (i punkabestia) che affollano le vie più alcoliche del centro. I giovin scrittori bolognesi ovviamente non condividono. Cinzia Bomoll dice che in via del Pratello andavano a divertirsi già ai tempi di suo padre, quindi chi ha comprato la casa in zona non deve stupirsi né lamentarsi. Gianluca Morozzi, il cui ultimo titolo (L'Emilia o la dura legge della musica)) fa sospettare una certa simpatia per i rumorosi, se fosse eletto sindaco regalerebbe ai cittadini quintali di portauova e lana di vetro, del tipo usato per insonorizzare le sale prove. «Così gli studenti potrebbero fare il rumore che vogliono e i residenti potrebbero dormire. Dopo però diventerei molto religioso e comincerei a pregare per la riuscita dell'operazione».


Colpisce che gli scrittori, anche giovani, anche di sinistra, siano meno utopisti dei politici, che ammettano realisticamente di non possedere formule magiche, che messi alle strette la pensino come quel vecchio pessimista di Montale: «Un imprevisto è la sola speranza».

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