Autori alla ricerca del Marcel Proust perduto

Chi era davvero l'autore della Recherche? La risposta si trova nel volume che raccoglie tutte le testimonianze degli intellettuali che gli furono amici. Tradotti per la prima volta i ricordi raccolti a caldo un mese dopo la sua morte

Autori alla ricerca del Marcel Proust perduto

Fra i mille buoni motivi che esistono per amare Proust, il non averlo conosciuto di persona occupa una posizione di privilegio. È questo accidente della storia (della nostra storia) a trasformarlo in uno dei suoi personaggi, anzi nel principale dei suoi personaggi, persino più importante del Narratore della Recherche. Soltanto così la crisalide diventa farfalla, Proust diventa Marcel: l’amico assente, il conversatore silenzioso, l’osservatore cieco, lo scrittore senza carta e penna. Diventa, insomma, l’ipotesi di Marcel, un’ipotesi che puntualmente si verifica.
Ma chi, invece, lo conobbe, quali immagini potè assorbire e riflettere, usandole come specchi ustori per incendiare i vascelli dei nostri ricordi impossibili? Le troviamo, quelle immagini, impresse a caldo, poco più di un mese dopo la sua morte, nel numero monografico della Nouvelle Revue Français datato gennaio 1923: Hommage à Marcel Proust. Dalla sessantina di contributi, l’editore Medusa ne ha pescati 24, riuniti sotto il titolo Proust e i suoi amici (pagg. 128, euro 14, traduzione di Luana Salvarani). Dal primo all’ultimo, cioè dalla commossa devozione di Anna de Noailles all’acuta ricognizione di François Mauriac, sono tutti encomi non solenni ma sentiti, non dovuti ma gratuiti. La poetessa ricorda di Marcel l’«ingenua e incommensurabile modestia», e Mauriac torna all’epilogo nella leggendaria camera da letto foderata di sughero che custodiva, come una teca da museo, i sospiri sempre più radi del genio stanco: «Durante l’ultima notte, dettava ancora delle riflessioni sulla morte, dicendo: “Questo servirà per la morte di Bergotte”. E abbiamo visto su una busta macchiata di tisana le ultime parole illeggibili che aveva tracciato, nelle quali era decifrabile il solo nome di Forcheville: così, fino alla fine, le sue creature si sono nutrite della sua sostanza, hanno esaurito la vita che gli restava». Così Marcel, andandosene, tornava crisalide, pronta a rinascere per chiunque s’immerga nelle sue pagine...
C’è una sola nota stonata, in questo concerto «alla memoria». È quella di Léon Daudet, figlio di Alphonse e fratello di Lucien. Il quale apre così la sua striminzita noterella indirizzata a Jacques Rivière, il direttore della Nrf: «Mio caro confratello, con mio grande dispiacere, la discussione del budget non mi lascia il tempo di scrivere la pagina di ricordo su Marcel Proust, che volevo mandarvi». Capito? «La discussione del budget»... Eppure era stato proprio Léon, definito da George Painter, biografo di Proust, «nazionalista e antisemita violento», nel ’19, a caldeggiare l’assegnazione del premio Goncourt al dreyfusardo (e di madre ebrea...) Marcel. Segno che la potenza gentile dell’arte di quest’ultimo può aver ragione su tutto. Un’arte, la sua, di cui un omonimo del capitano Alfred, quel Robert carissimo compagno di liceo, delinea le fonti, elencando gli autori di cui parlava con il sodale passeggiando abitualmente sul viale dell’Alcazar agli Champs-Élysées: Racine, Hugo, Musset, Lamartine, Baudelaire, Leconte de Lisle. E poi Anna Karenina, e poi Sarah Bernhardt, «di cui ha riversato il genio nella Berna delle Fanciulle in fiore»...
Reynaldo Hahn, uno fra i prediletti amici-amanti, rievoca un’altra passeggiata, durante la quale Marcel si bloccò, rapito dalla bellezza di alcuni fiori, «per così dire, in stato di trance», assorbendo con tutti i sensi quella semplice presenza e, lo sappiamo bene, incasellandola in un piccolo scomparto della sua memoria prodigiosa per metterla a frutto nelle descrizioni definite da un altro Daudet, Lucien, da «genealogista», anzi da «entomologo». Tutto, spiega Lucien, era importante, e «certe lettere d’invito \ lo interessavano come un romanzo di una pagina». «Sono certo - sostiene Rivière - che il voltaggio delle sensazioni in Proust fu sempre incommensurabile con quello che si riscontra nell’uomo medio». «Ma nelle sue profondità personali - aggiunge Paul Valéry -, Marcel Proust ha cercato la metafisica». Memoria elevata all’ennesima potenza, immaginazione, ricostruzione creativa immersa nella bergsoniana durata («È su ricordi stabilizzati dall’osservazione che lavora Balzac, su ricordi in perpetuo divenire che lavora Proust», sottolinea Benjanim Crémieux parlando di «ipnosi» e «allucinazione»). Sono questi gli strumenti del lavoro di scavo proustiano, così sotterraneo da apparire assolutamente creativo. Come conferma Walter Berry: «Avevo citato le parole di Rémy de Gourmont: “Si scrive bene solo di ciò che non si è vissuto”, quando si alzò di furia esclamando: “Ecco, questa è tutta la mia opera!”». Un’opera in cui l’occhio acuto del filosofo José Ortega y Gasset vede un’«istologia poetica» incastonata in «deliziose nodosità grammaticali». L’occhio mondano e complice di Jean Cocteau, da parte sua, registra ben altro. Una sera, uscendo dal Ritz, Marcel aveva distribuito, come al solito, generose mance a tutti sicché, arrivato di fronte al portiere, i soldi erano finiti. Che fare? Non restava che rivolgersi, per un prestito... allo stesso portiere: «gli chiese se poteva prestargli cinquanta franchi.

“Del resto - aggiunse, mentre il portiere si affrettava ad aprire il portafogli - teneteli pure. Erano per voi”». La chiosa di Cocteau è perfetta: «Trasportate questo volteggiare a ogni livello dell’intelligenza e del sentimento, potrete intravedere un poco del miracolo di Proust e della poesia in generale».

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