Avati: «Ho ridato al pubblico il cinema che gli mancava»

Uscito in sordina, «La seconda notte di nozze» ha saputo scavalcare pesi massimi come «Flightplan»

Michele Anselmi

da Roma

Mai successo, in 37 anni di carriera. Mercoledì mattina, ripartendo da Bologna, Pupi Avati ha ricevuto una telefonata di quelle che ripagano di mille affanni: il giorno prima La seconda notte di nozze aveva battuto I fratelli Grimm e Flightplan, piazzandosi al primo posto nella classifica degli incassi. Una ciliegina sulla torta. Già lunedì Cinetel lo dava al terzo posto, con 817mila euro e una lusinghiera media per copia. «Magari sarò re per una notte, ma mi gusto il momento» ha sorriso il regista con l’aria di chi non si aspettava un simile miracolo. Invece il film, uscito un po’ in sordina, ha continuato a marciare bene anche nei giorni feriali. Venerdì era sempre primo, con 1 milione e 200mila euro. E intanto le copie sono aumentate da 187 a 240. Chissà che il record non regga alla distanza.
Avati, come spiega questo exploit?
«In effetti, sono sorpreso. Non mi aspettavo niente del genere. Nell’ambito dei nostri risultati, un film va bene se nel primo week-end incassa 500mila euro. Qui siamo partiti da 800mila. Non mi piace parlare di soldi, ma queste cifre significano che il film piace. Ho fatto un lungo giro di promozione, partendo da Fasano, per atto di riconoscenza verso la Puglia, con il presidente Nichi Vendola commosso al termine della proiezione. Poi Firenze, Bologna, Imola, Milano. Sempre tutto esaurito, applausi calorosi».
Pubblico imperscrutabile o conferma di una linea?
«Vai a sapere. All’inizio s’era deciso di uscire a fine gennaio. Non saremmo neanche dovuti andare in concorso a Venezia. Poi è venuta un’affettuosa forzatura da Müller, una cosa ha tirato l’altra. RaiCinema aveva una sua idea di uscite, che si basava principalmente sul film della Comencini, La bestia nel cuore. L’approdo alla Mostra ha fatto anticipare tutto. Meglio così. Ora siamo tutti contenti».
Ancora arrabbiato per la mancata Coppa Volpi a Katia Ricciarelli?
«Mi sono sentito defraudato. Ma oggi non ho voglia di polemizzare. Preferisco restare fuori dai giochi, dai veleni e lavorare».
Parliamo, allora, di cinema popolare. Perché, a suo modo, La seconda notte di nozze sta diventando un film popolare, che va oltre il popolo degli «avatiani».
«Ci sono degli elementi che fanno di questo film un film più vicino alle grandi platee. Il cast, innanzitutto, perché mescola attori di varia provenienza cari a fasce generazionali diverse, da Albanese e Marcoré, che piacciono ai giovani, alla Ricciarelli, che forse attira uno spettatore più maturo. Lo so, molti vengono a vedere se Katia sia un’attrice o no. Poteva essere un elemento di rischio e difatti trovammo molta freddezza all’inizio. Fu mio fratello Antonio a convincermi che l’idea era giusta».
Secondo e terzo elemento?
«Il titolo che funziona: più evocativo, misterioso e bello di quanto immaginassi. Ci si chiede: cosa succede alla seconda notte di nozze? Infine la strana e genuina italianità alla quale ho fatto ricorso nella caratterizzazione dei personaggi, dal furbastro Marcoré, che si venderebbe la madre per un pezzo d’auto, all’innocente Albanese, che smina i campi e sfida la morte finché non s’innamora. C’è più Italia che in altri film. Non racconto un Benelux totalmente spersonalizzato. Il pubblico che ride o si commuove sente di aver ritrovato il suo cinema».
Per questo cita Germi e De Sica?
«Avrei potuto citare anche Sordi. Soprattutto Age e Scarpelli, e dirlo oggi mi fa particolarmente piacere. Age è sempre stato una persona generosa con me. I cineasti di quella generazione non sono molto generosi nei riguardi di chi è venuto dopo. Invece Age mi è stato subito vicino, mai ostile, sempre interessato».
Dica la verità: c’è il suo zampino dietro la pace in diretta a Domenica in?
«No, ma ho fatto di tutto perché Katia e Pippo si riavvicinassero. Durante le riprese lei soffriva del fatto di non poter più avere un rapporto normale con lui. Si sono detti e fatti cose terribili. Se il film ha contribuito a sciogliere il ghiaccio, be’, sono contento. Non è stata una furbata».
Ha visto La tigre e la neve?
«No. So che è arrivato a 15 milioni di euro. Forse poco per Benigni, ma comunque una cifra che nessun mio film raggiungerà mai. Stiamo parlando di un cinema che non conosco, di ordini di grandezza che non pratico. I miei film costano in media 2 milioni e mezzo di euro, mai sopra i 3. Facciamo due mestieri diversi. L’unica volta che i nostri destini si sono intrecciati fu all’epoca di Berlinguer ti voglio bene, prodotto da noi Avati insieme a Minervini. Bello. Coraggioso. Commercialmente un disastro».
C’è chi pensa che due film all’anno siano troppi. Neanche Woody Allen è prolifico quanto lei.
«Secondo me sono i miei colleghi che ne fanno troppo pochi. Stare su un film tre-quattro anni per poi non sfornare un capolavoro assoluto mi pare una follia. L’arrugginimento produce distanza dal mezzo. Diciamo che io rispetto i ritmi del cinema italiano di trent’anni fa. E poi guardi: se non mi venissero le storie, starei fermo. Cerco solo di fare un prodotto medio di qualità».
E infatti ai primi di dicembre sarà di nuovo sul set.
«Sì, una storia tutta al femminile, contemporanea. Si chiama La cena per farli conoscere. Ci sono Francesca Neri, Violante Placido, Inés Sastre e Vanessa Incontrada. Più Diego Abatantuono».
È vero che ha rivalutato il sindaco Cofferati?
«Mi sono ricreduto, non lo nego.

Mi sembrava uno paracadutato da Roma, senza legami con la città. Negli ultimi tempi, però, ha saputo prendere provvedimenti impopolari, che poi tanto impopolari non sono. Si è spostato un po’ più al centro, è diventato sindaco di tutti».

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