"La crescita Usa può trainare le multinazionali europee". Intervista all'investitore Luca Burei

Prima una lunga esperienza in L’Oreal, poi i fondi lussemburghesi fino all’esclusivo club Tiger 21: Burei è l’investitore italiano che ha scalato la finanza internazionale e siede ai tavoli con i maggiori businessman americani

"La crescita Usa può trainare le multinazionali europee". Intervista all'investitore Luca Burei
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Si dice che ne faccia parte anche Elon Musk, ma le identità dei soci di Tiger 21, gruppo americano che riunisce una attentissima selezione (solo su invito con criteri finanziari e morali di ingresso molto rigidi) di investitori internazionali, sono rigorosamente protette da privacy. Tra i pochissimi membri invitati a farne parte vi è anche un italiano: Luca Burei, investitore nella Borsa americana con il suo family office e nei mercati immobiliari americano, spagnolo e italiano, imprenditore (Ravioli Burei), ha un trascorso di top manager per oltre 20 anni in L’Oreal e un bagaglio di esperienze che lo hanno portato a vivere e lavorare in 3 continenti e 14 paesi.

Luca Burei
Luca Burei

Burei, come è arrivato nel tempio della finanza americana?

Dopo i master in economia alla Bocconi e all’Insead, sono entrato in L’Oreal. A 34 anni sono stato il più giovane direttore generale dell’azienda e il primo “straniero” a ricoprire il ruolo di DG della Francia presso la sede centrale, a Parigi. Sono stato poi Presidente e CEO di L’Oreal in America Latina. Ho ampliato poi nel 2015 il mio focus alle imprese, creando una mia un'attività imprenditoriale e di private equity, creando una joint venture per le Americhe con l’azienda di biscotti Colussi e sviluppando il mio marchio di pasta fresca ripiena. Ho poi avviato un'attività di snack biologici in partnership con un grande player internazionale della distribuzione, Dufry.

Nel frattempo ha anche avviato un’attività finanziaria in Lussemburgo.

Ho sempre coltivato una passione per i mercati azionari, culminata nell’apertura del mio family office in Lussemburgo. Investo nei mercati internazionali, in particolare U.S., spagnolo e europeo/italiano, e nel 2018 ho aggiunto anche il segmento immobiliare. Da investitore sono entrato in connessione con Tiger 21 (acronimo di “The Investment Group for Enhanced Results in the 21st Century”, ndr), un club dove i membri condividono esperienze, si aiutano reciprocamente ed influenzano stakeholders esterni. Ci riuniamo ogni mese e le regole delle riunioni sono che l'ego rimane alla porta, occorre portare idee e fare avanzare i progetti. Un luogo dove si impara molto e si diventa più modesti.

Come vede i mercati azionari post elezione di Trump?

L’elezione del nuovo presidente ha portato a uno scenario caratterizzato da un effetto positivo nei listini sia del nuovo che del vecchio continente, seguito nei mercati europei da situazioni di volatilità. La crescita dell’economia statunitense può a mio avviso avere un effetto positivo su alcune grandi multinazionali europee esposte agli Stati Uniti, ma l’impatto delle politiche protezionistiche di Trump rappresenta un rischio per la catena di valore globale. Come investitori internazionali stiamo monitorando attentamente la reazione delle economie europee a queste dinamiche. Mentre un dollaro forte tende ad avvantaggiare l’export europeo, le incertezze su possibili nuove barriere commerciali impongono prudenza. Dall’altra parte, l’indebolimento del dollaro (auspicato dal neo presidente) porterebbe ad un miglioramento della bilancia commerciale e favorirebbe flussi di capitale verso gli Stati Uniti. Nel complesso, il panorama rimane misto e richiede una strategia di portafoglio diversificata e flessibile.

Perché è più facile essere imprenditori in USA anzichè in Europa?

Negli Stati Uniti la finanza per le startup si presenta come un ecosistema vibrante e ricco di opportunità, invece in Europa prevale un modello più tradizionale e bancario. La maggiore diversificazione delle fonti di finanziamento negli USA, che include strumenti come il venture capital e il private equity, permette agli imprenditori di accedere a capitali anche in assenza di garanzie reali, favorendo così lo sviluppo di progetti innovativi e ad alto rischio. Al contrario, la dipendenza dal credito bancario in Europa limita le possibilità di crescita delle startup, in particolare per quelle che operano in settori ad alta intensità tecnologica. Questa disparità tra i due modelli ha un impatto significativo sulla competitività delle imprese europee a livello globale.

Il vento favorevole americano per le startup arriverà anche in Europa?

Mentre negli Stati Uniti il fallimento viene spesso visto come una tappa necessaria nel percorso imprenditoriale, in Europa prevale una cultura più avversa al rischio. L'idea che cadere e rialzarsi sia un segno di determinazione è profondamente radicata nella mentalità americana, stimolando un ecosistema imprenditoriale dinamico e aperto all'innovazione.

Al contrario, in Europa la stabilità occupazionale e la paura del fallimento rappresentano ancora dei freni significativi per chi desidera intraprendere un'attività in proprio. Mi auguro che questa situazione possa cambiare, ma i tempi a mio avviso non sono ancora maturi.

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