Più cibo, meno food. Più cuochi, meno chef. Più vino, meno sommelier. E se riappropriandoci della nostra lingua riacquistassimo anche il senso della misura nel mondo della gastronomia ancora non uscito dalla bolla in cui si è ritrovato più o meno una ventina di anni fa?
Certo non ne fa una questione di sovranismo linguistico Anna Prandoni, giornalista e scrittrice, curatrice di Gastronomika, il quotidiano sulla cultura e l’industria del cibo e del vino de Linkiesta. Però non è certo un caso se la narrazione sempre sopra le righe di cosa mangiamo e di come e di perché si alimenti di parole straniere che creano comunque una distanza tra chi parla e chi ascolta, la stessa distanza che sembra esserci tra la narrazione e la realtà.
Prandoni ha provato a mettere ordine nel discorso sulla gastronomia usando il buon senso. Anzi, Il Senso Buono, come si intitola il suo libro da poco uscito per Linkiesta Book (158 pagine, 15 euro). Buon senso significa evitare di schierarsi in uno dei partiti in armi nell’eterna lotta “tra modernità e tradizione, tra biodinamico spinto e agricoltura intensiva, tra cucina ipercreativa e recupero ossessivo delle tradizioni fermentative, tra vino naturale e convenzionale, tra vegani a tutti i costi che mangiano quinoa prodotta disboscando foreste e carnivori che si nutrono solo di chianina”, come scrive Prandoni nella quarta di copertina, evocando delle curve da stadio del cibo.
Il volume è costruito in nove capitoli ciascuno dei quali è basato su un bipolarismo più/meno. Il primo (Più etica del cibo, meno industrializzazione) riflette su come la scelta di cosa o di dove mangiare non possa prescindere da considerazioni su quanta fatica ci sia dietro un certo cibo e sul fatto se un ristorante paga il giusto i fornitori e i dipendenti, paghino le tasse, rispettino le regole di igiene. Perché alla fine “se il cibo costa poco o non è buono o è frutto dello sfruttamento del lavoro umano”. Il secondo capitolo (Più produttori meno supermercato: coltivare dubbi per far crescere nuove certezze) propone un manifesto che dovrebbe essere “condiviso da tutte le persone che decidono di parlare di enogastronomia in maniera etica e contemporanea” e che possa permettere di ridisegnare la contemporaneità. Il terzo capitolo, Più local, meno global (a eccezione delle idee), si occupa dei falsi miti delle tradizioni, partendo dal caso italiano, giungendo alla conclusione che la cucina deve essere una sintesi tra culture che diventi qualcosa di differente “che mutua dalle prime due il meglio e lo ripensa, rinnovato”. Gli altri capitoli approfondiscono i temi della scienza contrapposta alla supponenza, della conoscenza contrapposta alla spannometria di Tripadvisor, della comunicazione fatta bene contrapposta alle marchette. Ci sono poi riflessioni sulla cucina in tv, troppo votata all’intrattenimento e poco al lavoro, sul comfort food che deve trasformarsi in comfort kitchen e di quell’altra bolla nella bolla che si chiama vino.
I temi sono tanti, sono trattati con piglio da polemista che pone dubbi e smaschera le ipocrisie. Non si tratta certamente di un libro inchiesta, ma di un catalogo di idee che sposa una sola tesi: quella che è la moderazione l’unica strada per tornare a dare al cibo e alla sua narrazione il peso che merita. Moderazione che non significa rifiutare di prendere posizione, ma prenderla con intelligenza e discernimento, senza aderire a parrocchie o tribù. “Siamo pronti – conclude Prandoni – ad andare oltre le fazioni e incontrarci, insieme, sul terreno del buon senso: quello che ci permetterà di progredire e di arrivare a un nuovo modello agricolo, sociale, culturale, autenticamente sano per l’uomo e per la terra, buono nel significato più autentico e condiviso, durevole e non sostenibile. Per tornare finalmente al cibo, dimenticando il food”.
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