Il Made in Italy costituisce un perno essenziale di distinzione internazionale per il nostro sistema Paese. Bellezza, eleganza, raffinatezza e impiego di materie prime di qualità consentono di realizzare una manifattura di eccellenza. La quale è ambita nell'intero globo, non soltanto dai ceti più abbienti, ma anche su vasta scala di popolazione, tanto da essere la più copiata e falsificata a livello mondiale. Fashion e moda rappresentano, insieme al design, un significativo elemento, oltre che commerciale, attrattivo che si traduce in presenze estere e forte incidenza sulla formazione del Pil, in particolare di Milano, ma anche di Roma e, più in generale, del Paese.
Basti pensare all'importanza che rivestono le giornate della moda e il Salone del design per Milano e la ricaduta strutturale che ha consentito alla città di essere ai vertici del ricettivo alberghiero del lusso a livello nazionale e ormai poco distanziata, ma solo in termini di numeri, da quello di Parigi e Londra, ma non certo per la qualità, visto che all'hôtellerie di lusso si abbina una enogastronomia italiana altrettanto ambita e anch'essa ai vertici mondiali. Purtroppo nell'arco di questi ultimi due decenni, parte non secondaria delle maison del fashion tricolore è passata a mani estere, soprattutto transalpine.
La filiera produttiva, grazie all'insostituibile maestria artigianale italiana, ne ha risentito in misura, per ora, quasi irrilevante, mentre nell'ambito del sistema commerciale dei pluri marca di lusso sono emerse pressioni tutt'altro che secondarie per quanto concerne l'obbligo delle quantità e il tassativo rispetto delle tempistiche dei pagamenti, cosa che precedentemente, con le proprietà nazionali, era meno oppressiva. D'altronde i due giganti che si sono impossessati di primari marchi italiani, entrambi francesi, Lvmh-Arnault e Kering-Pinault, sono giganti finanziari stellari.
Il primo è ai vertici delle capitalizzazioni non solo nella Borsa parigina ma anche di quella europea, mentre il secondo si colloca ai primi posti del listino francese. A essi si affianca l'elvetica Richemont, la quale non ha acquisito marchi italiani, ma anch'essa è dominante nel listino di Zurigo. La somma delle tre capitalizzazioni porta a un totale che corrisponde a 2/3 dell'intera capitalizzazione di Piazza Affari, costituita da oltre 800 imprese. Gli stessi fondi sovrani arabi non hanno mai tentato di acquisire nessuno dei tre citati gruppi, proprio per i valori che esprimono. Il tema proprietà estere di imprese italiane, pur non potendo essere ritenute strategiche, richiede una particolare attenzione per limitare nuove cessioni a mani straniere.
Un obiettivo che per realizzarsi richiede una politica fiscale incentivante per chi investe in imprese che contribuiscono in misura rilevante al valore aggiunto Italia per attrattività, commercio, occupazione e ritorni per le casse pubbliche, sia a livello fiscale che contributivo. Un'azione che può contribuire a ridurre, pur di fronte a offerte miliardarie, la volontà di cedere la proprietà. È bene ricordare che nel caso di Bulgari, Loro Piana e Fendi, Lvmh ha offerto non solo cifre monstre, ma anche partecipazioni strategiche per consolidare e rendere di fatto eterni i loro marchi, inserendo almeno uno dei cedenti nei gangli decisionali parigini.
Non resta che constatare che tra il 1980 e il 2000 le grandi aziende della moda italiana erano totalmente in mani italiane e che la Camera della Moda, molto prima che arrivasse sul palcoscenico Arnault, tentò di fare squadra proponendo la fusione tra i numero uno, ma ahimè nulla accadde.
Mentre i francesi, con esclusione di Hermès e Chanel rimaste indipendenti, sono riusciti a riunire sotto due soli cappelli i loro number one. Il lusso è un valore aggiunto per il nostro Pil, ecco perché è importante conservarne il più possibile in mani italiane.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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