A leggerli così, uno in fila all'altro, insegna dietro insegna, passo dopo passo, in Montenapoleone niente pare cambiato. O meglio. Non c'è più il fruttivendolo, il salumaio ora ha la «s» maiuscola, non vende più solo prosciutti all'etto, si è appropriato dell'articolo «Il» e si è allargato nello storico palazzo Bagatti Valsecchi, mentre la gastronomia è diventata un bistrot. Sono cambiati i numeri, i ricavi, gli arredi. Ma loro, i protagonisti del Quadrilatero, dalla A di Armani alla Zeta di Zegna, passando per Bottega Veneta, Cucinelli, Ferragamo, Prada, Versace, Fendi, Hogan, Tod's, Larusmiani, Missoni e via discorrendo, quell'Italia pioniera che tutto il mondo ci invidia, è sempre tutta lì. I brand che hanno fatto la storia della moda hanno prolificato, si sono allargati, una, dieci, cento vetrine, sono saliti in cerca di spazio fin dove hanno potuto, occupando interi piani di interi stabili. Eppure, dietro quei nomi, lungo quella via, oggi quell'Italia è un po' meno Italia. Da Gucci a Pomellato da Loro Piana a Valentino il made in Italy in questi vent'anni è stato terra di conquista, soprattutto francese. Si fa meno fatica a chiamarle maison, con dietro colossi del lusso come Lvmh o Kering, i cugini d'oltralpe che si sono appropriati di una discreta fetta di una strada diventata un district. Secondo Guglielmo Miani, presidente dell'associazione che raccoglie 120 brand del Quadrilatero, gli stranieri che siedono ai vertici dei principali brand sono ormai il 50%. Secondo alcuni il 60%, avendo occupato l'80% degli spazi. L'Italia fa gola. Ingolosisce il nostro lifestyle tradotto in moda, design, cibo. Tanto che poi comprano per lasciare tutto com'è. Metti Cova, la storica pasticceria da 200 e rotti anni: è entrata nella galassia di monsieur Arnault senza un plissè anni fa per oltre 32 milioni di euro. Un dolce lusso dove, comunque, il bancone è rimasto quello di un tempo, in mogano, lucido e decorato, il mosaico all'ingresso è sempre quello originale così come i lampadari con le gocce di antico cristallo. E la targa che segna la fondazione «1817» in segno di totale continuità. «Sono scelte imprenditoriali - osserva Miani - Ma lo vedo come una cosa positiva perché specie per alcuni è stato un aiuto per sviluppare il brand nel mondo». Cova, ad esempio oggi ha portato il suo tradizionale panettone in 30 negozi nel mondo da Hong Kong a Riyad in Arabia Saudita.
Ma Via Montenapoleone forse un po' di accento francese lo ha sempre avuto nel dna. Era Monte Napoleone, in due parole, staccate, perché proprio qui l'imperatore volle (ri)aprire il banco dei pegni. Prima di lui Maria Teresa d'Austria ne aveva fatto costruire uno e così la via aveva preso il suo nome: via Monte Santa Teresa. Il banco rimase poi chiuso diversi anni finchè Napoleone lo riaprì. Con l'Unità d'Italia e con l'intento di cancellare ogni traccia del vecchio governo austriaco, la via venne definitivamente ribattezzata Montenapoleone, tutto attaccato: nomen omen. Quasi un presagio per questo spicchio di via, minuscola, appena 800 metri in cui qualunque brand del lusso vuole essere presente. «Ce ne sono decine in lista di attesa», racconta Miani. Se poi «dietro» parlano francese, arabo o cinese, a chi compra poco importa: oggi entrare (e acquistare) in un negozio di Montenapo è un must. Vale di più. Nel 2018 il giro di affari qui era stato quantificato dalla società Bain in 3 miliardi (il 56% dello shopping di tutta la città), ma altre stime parlano del doppio, su un Pil che di circa 176 miliardi.
«La bellezza e la magia di questa via è anche nel fatto che tutto è concentrato in pochi metri, e quindi tutto è molto comodo. Milano poi è diventata la piazza più importante d'Europa». Con Montenapoleone al top, quale prima strada in Europa. Lo certifica il report «Main Streets Across the World» firmato Cushman&Wakefield, che monitora le principali vie di retail in 92 città del mondo e stila la classifica delle più prestigiose in base al valore dei canoni. I dati sono freschi, novembre 2022. Ed eccola lì, sul podio mondiale, terzo posto dopo Fifth Avenue a New York e Tsim Sha Tsui a Hong Kong e per la prima volta davanti a New Bond Street e Avenue des Champs Élisées, scesi al quarto e quinto posto. Che siano i fatturati o i prezzi di affitto (stiamo parlando di 14.547 euro al metro quadro all'anno come canone medio, ma si sono toccate punte di 23.000 euro) qui non c'è un buco libero. Tutto sale, tutto lievita. Prezzi, presenze, italiani, stranieri. Scontrini, pure. Come può non far gola, d'altronde, una vetrina qui, se ogni italiano che si fa aprire la porta dai vigilanti con auricolare e abito scuro, spende in media mille euro a vetrina, mentre uno straniero arriva fino a 2.
300? E così c'è chi raddoppia la presenza come Chanel, pronta ad aprire con uno spazio più grande (ma resta anche in via Sant'Andrea), Vuitton che si allarga, Tiffany che infine si è conquistata uno spazio. Perché qui, in Montenaponeone non si compra e basta. Si vive un'experience ai massimi livelli del Made in Italy, anche se ai piani alti si parla più francese che italiano.
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