Banchieri, dite la verità

Solo un giornalista sa quanto pesano le parole di un banchiere. Più esso è di rango e più le sue parole si rarefanno. La finanza si inventò quello straordinario escamotage retorico: «L’istituto non è uso commentare indiscrezioni di mercato». Tanto bello nel non dir nulla che è diventato un paradigma di tutte le imprese che si vogliano dare un contegno. La parola (o la non parola) di un banchiere fino a ieri aveva una sua sacralità. Quasi contadina. Come quella stretta di mano sufficiente a rispettare un accordo.

La crisi finanziaria di questi giorni, si è detto a più riprese, è anche una grave crisi di fiducia. Le banche non si prestano soldi tra loro, perché non si fidano. I correntisti hanno paura per i propri depositi, proprio perché indotti a non fidarsi da tanta diffidenza in circolazione. Ma chi oggi può davvero fidarsi delle parole di un campione del mercato come Alessandro Profumo? Partirà un aumento di capitale per Unicredit. Qualche settimana fa ne avevamo già parlato sul Giornale. E non fummo i soli. Un portavoce della banca, probabilmente su richiesta dell’Autorità di vigilanza, il 24 settembre scorso aveva proclamato: «Non esistono piani per fare aumenti di capitale». In occasione dei suoi conti trimestrali, a maggio, lo stesso Profumo aveva ribadito come quello dell’aumento di capitale fosse una panzana. Le circostanze cambiano, è ovvio, ma per Unicredit un filo troppo rapidamente. Con tutto il mondo che chiede maggiore trasparenza, forse si potrebbe anche partire dalla banale regola: «Non diteci troppe fandonie o se lo fate che non vengano smentite il giorno dopo». Si rischia di compromettere ancora di più quel bene sempre più raro rappresentato dalla «reputazione» del banchiere.

Di troppa fiducia, in se stessi, i banchieri di questi tempi sono capitolati. Il numero uno di Lehman Brothers, Richard Fuld, probabilmente le frottole le ha raccontate anche a se stesso. Poco prima di fallire, secondo quanto riportato dal Wall Street Journal, ha rifiutato un’offerta di un fondo statale coreano che voleva comprare il 25% della banca per 4-6 miliardi di dollari. Poco dopo, come riportato dal Financial Times, ha sbattuto la porta in faccia anche alla cinese Citic. Il suo direttore finanziario Erin Callan, pochi giorni prima del fallimento, così disse ad un incontro con degli analisti finanziari piuttosto preoccupati: «Abbiamo raccolto capitale a sufficienza». Si è visto. Robert Steel, l’amministratore delegato dell’americana Wachovia, con il titolo già crollato a 10 dollari rilasciava un’intervista all’emittente televisiva Cnbc. «Abbiamo un grande futuro come società indipendente - diceva -. Siamo focalizzati su eccitanti prospettive». Nel giro di qualche giorno le uniche prospettive si sono rivelate un’acquisizione di Citigroup per un dollaro ad azione. E la prima stella a cadere, Bear Stearns, non è stata da meno.

«Non vediamo alcuna pressione sul nostro livello di liquidità» confortava gli investitori Alan Schwartz, leader della banca. Nel giro di qualche giorno si salvava solo grazie all’acquisizione da parte di Jp Morgan alla ridicola cifra di due dollari per azione. La lista è lunga: le frottole anche.

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