La bellezza dell'arte italiana? Essere così provinciale

Luca Beatrice in "Le vite" ripercorre i suoi incontri con tutti i grandi: da Mimmo Rotella a Cattelan

La bellezza dell'arte italiana? Essere così provinciale

Giulio Turcato non spiaccicò parola. Con Carol Rama cenò in un ristorante di Torino. Mimmo Rotella gli diede un'intervista al bar sotto casa, nei pressi del Pac di Milano, e alla fine parlarono di fimmini. Raggiunse Mario Schifano nella villa di Sabaudia per un pranzo, in verità, non troppo loquace. Quando andò a trovare Mario Ceroli, a Roma, si trovò davanti un ragazzo di quasi ottant'anni vestito da biker. Con Vangi si diede appuntamento invece sul lungomare di Pesaro. Nella studio romano, Alighiero Boetti non tollerava il caos e lo guardò appena. Con Gian Enzo Sperone discuteva di calcio e di Juventus. Aldo Mondino gli si presentò indossando un cappotto in casentino arancione da vero dandy. Conobbe Maria Lai, non in Sardegna, bensì in una casa a Castel di Tusa in Sicilia.

Si potrebbe continuare, perché il nuovo libro di Luca Beatrice (Le vite. Un racconto provinciale dell'arte italiana, Marsilio, pagg. 318, euro 19) sulla scorta delle biografie del Vasari è una sorta di diario degli incontri che il critico torinese ha avuto nella sua ormai ultra trentennale carriera, ricco di aneddoti e di illuminazioni che vanno oltre o dentro l'ultimo mezzo secolo dell'art system italico. Giova a Beatrice, il secondo mestiere di giornalista che lo ha condotto sistematicamente a intervistare gli artisti, obbligandosi e piegandosi davanti ai vezzi e ai loro tic, alle loro gigionerie. Il libro è però anche e soprattutto un manuale di arte, in cui esce il carattere dello studioso e del docente di lungo corso, oltre che del critico, componendo una controcanone soprattutto della sua generazione, cioè dei nati negli anni Sessanta, non avendo egli timore di includere, a fianco di Cattelan e Vezzoli, tra gli altri, i figurativi dell'Officina Milanese, o quelli della Scuola di Palermo che i critici à la page spesso snobbano.

Con orgoglio, il suo è un viaggio nella provincia rispetto ai luoghi e ai fasti del mercato internazionale e delle fiere e delle biennali imperdibili sparse in mezzo globo, intendendo provincia tutta l'Italia, un'Italia dove c'è tanta Torino che è allo stesso tempo città sonnolenta di provincia e capitale del contemporaneo nel nostro Paese, e c'è Battipaglia dove raggiunge Paolo Bini, c'è l'Alba di Valerio Berruti, la Modena di Andrea Chiesi, la Brescia di Vezzoli, la Genova della Beecroft, la Padova di Cattelan, la Pinerolo di Daniele Galliano, la Pavia di Marco Lodola, la Biella di Michelangelo Pistoletto, «perché un conto è nascere in una grande città, un altro andare a viverci e lavorare» e «nel destino di queste narrazioni c'è sempre un treno, un'auto, un trasloco, e poi va a finire che per le feste comandate e le vacanze estive si torna a casa dai parenti per parlare ancora una volta quel dialetto, respirare l'aria di un tempo, gustare la cucina casalinga».

Una provincia, cioè l'Italia intera, che per «pigrizia», dice lui, diventa un orizzonte di vita e di lavoro, ma anche di senso, cioè l'esaltazione del localismo versus il cosmopolitismo: «La strenua difesa del provincialismo trova nella preferenza per i linguaggi novecenteschi, ancorati alla storia dell'arte e dunque divenuti classici, un'altra ragione che sposa la varietà per distaccarsi dall'uniforme international style, le cui repliche si possono trovare da New York a Bangkok, da Pechino al cuore dell'Africa».

C'è però un altro aspetto di cui tener conto. Luca Beatrice è un critico potremmo dire laico, che ha sempre preferito l'apertura all'ideologia, e questa predisposizione gli ha consentito di essere libero, approcciandosi ai vari stili e generi e alle tante personalità incontrate senza pregiudizi, gli ha permesso di poter collaborare a due riviste distanti come Flash Art, che fu la bibbia del contemporaneo più hard, e Arte la rivista nazionale più mass market, di essere stato allievo del grande Enrico Crispolti, il grande riscopritore del Futurismo, di averi imparato da Giancarlo Politi il guru del concettuale, di essere amico del polutropo Vittorio Sgarbi, di apprezzare Roberto D'Agostino, in arte Dago, di magnificare il furioso Oliviero Toscani, di non disdegnare l'ormai autoironico Francesco Bonami, tutti geni in antitesi tra loro, spesso coinvolti i furibonde alterchi l'un contro l'altro. Ciò non significa che Beatrice non abbia espresso una posizione forte, schierandosi spesso contro il pensiero progressista radical chic e contro il politicamente corretto, dando una propria visione dell'arte in numerose mostre, a partire dall'omaggio a Filippo Tommaso Marinetti al Padiglione Italia 2009 - Biennale di Venezia che è certo, dal punto di vista curatoriale, uno degli apici della sua carriera.

In questa teoria di ritratti, cosa infine apprezzabile, accanto ai big (Getulio Alviani, Emilio Isgrò, Ugo Nespolo, Piero Gilardi, Pino Pinelli) c'è spazio anche per i dimenticati, per esempio per Mattia

Moreni di Brisighella un vero outsider, una sorta di surrealista voyeurista, c'è spazio per Piero Ruggeri, per Valeriano Trubbiani, per Massimo Iosa Ghini, tutti nomi da rivedere speriamo presto anche nelle storie ufficiali.

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