Dovessimo definire il concetto di bellezza anche con ampio dispendio di argomenti, di sapienti disamine, sarebbe arduo, persino rifacendoci alla codificazione in termini assoluti dellestetica hegeliana, approdare a unindividuazione accessibile di tale idea.
Ezra Pound, il grande poeta nordamericano arenatosi rovinosamente sui nostri lidi negli anni perigliosi del fascismo, della guerra e dellinesorabile nemesi del dopoguerra (morì, ormai silenzioso, a Venezia nel 1972, dopo aver pagato, in patria, la sua sconsiderata adesione al regime mussoliniano), nei suoi giorni migliori in Italia scrisse, fra i tanti ammirevoli versi degli anni verdi, uno Studio destetica che, per sé solo, esprime con disarmante semplicità e chiarezza, il concetto del bello. «I bimbi piccolissimi in rattoppati panni,/ Di colpo fatti veggenti,/ Fermarono il gioco/ Quando lei passò loro davanti/ E grida lanciarono dalla sassosa riva:/ Guarda! Ahi, guarda! che bea!/ Ma tre anni più tardi/ Udii il giovane Dante, di cui ignoro il cognome -/ Ventotto ce ne sono a Sirmione di giovani Danti/ e trentaquattro Catulli;/ E cera stata una bella pesca di sardelle/ E i più grandi di lui/ In cassette di legno le stavano stipando/ Per il mercato di Brescia e lui attorno/ Saltava puntando al pesce lucente/ E stando loro tra i piedi;/ E come essi sta fermo! gli intimavano invano/ Né volevano lasciarlo sistemare/ I pesci nella cassetta/ Lui carezzò quelli che dentro già stavano./ Dintima soddisfazione mormorare ludii/ Lidentica frase:/ Che bea/ E alquanto perplesso io ne rimasi».
Noi che, pure, grandi o piccoli poeti non siamo, possiamo cogliere in quellapparente enigmatica espressione infantile lilluminazione solare di ciò che è non soltanto la bellezza, ma altresì la sua pregnanza più compiuta. Che cè di meglio, di più alto infatti di quellesclamazione tutta immediata, tutta incontrovertibile: «Che bea». Eppure, cè a tuttoggi chi con sagacia e acribia rigorose sè dato, con passione e dottrina, il compito non agevole di affrontare il tema imponente duna Storia della bellezza (Donzelli, pagg. 277, euro 18,50). Costui, Georges Vigarello, paludato storico-sociologo-antropologo operante a Parigi, sulla traccia di una circostanziata perlustrazione storica e critica - «Il corpo e larte di abbellirsi dal Rinascimento a oggi» - mette in campo modi e caratteri, particolarità e incalzanti innovazioni dun continuum evolutivo che, appunto, dal XVI secolo a oggi ha identificato costumi, usi e persino dati fisiognomici-comportamentali di gran parte della civilizzazione occidentale.
Potrebbe sembrare di primo acchito un proposito non proprio essenziale quello perseguito in questo libro, ma basta scorrere lindice per avere evidente garanzia di uno studio specifico più che mai dettato da criteri scientifici e solidamente convincenti. Eccone la griglia strutturale: si parte dal XVI secolo con la disamina sulla «bellezza rivelata (corpo descritto, corpo gerarchizzato)», si prosegue col XVII secolo con la definizione di «bellezza espressiva (il volto o la vita?)» per continuare quindi, nei secoli successivi fino ai giorni nostri, con le tematiche «la bellezza sentita», «la bellezza desiderata», «la bellezza democratizzata».
Ovvio che, se quantomeno incuriosisce ciò che Luigi XIV rivela, in una lettera privatissima a Madame De Maintenon, sul conto della futura Delfina di Francia, la principessa di Savoia chegli è andato a ricevere a Montargis (il 4 novembre 1696) - «straordinariamente bella», «bocca vermiglia», «unaria nobile e modi educati» -; certo, ci appassiona ancor più constatare che, in anni più tardi, Maria Antonietta ha occhi capaci di «assumere tutti i temperamenti», o convenire con la signora Véronique Nahoun-Grappe che, in tempi più ravvicinati, così spiega che cosè una vera signora: «Una bella donna è uno spettacolo che colpisce, ma poco pensato, come se il fascino che essa emana fosse una spiegazione sufficiente».
Di epoca in epoca si assiste in tal modo a una progressione, per quanto indotta e pilotata via via da stilemi e modalità deleganza e di comportamento sempre nuovi, che dalla vagheggiata «bellezza assoluta» dei secoli passati approda in prospettiva a unidea della bellezza più diffusa, a concetti estetici più esclusivi e particolari, tanto da caratterizzarsi in una ricerca determinata nel «ricostruire laspetto esteriore», come il maquillage, che, non a caso, Baudelaire definiva già un modo di «inventare se stessi».
Naturalmente, una simile tendenza oggi ampiamente verificabile anche in forza della «medialità globale» che governa - volenti o nolenti - il nostro tempo innesca inesorabilmente insidiosi processi imitativi o mimetici non sempre perspicui e ancor meno necessari.
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