da Mogok (Myanmar)
«E voi da dove arrivate?». Strepita la signora della compagnia di taxi quando dalla Toyota nera oltre ai pacchi vede uscire due occidentali. Non si capisce se è più spaventata o sorpresa. «Come in, come in»: ad ampi gesti invita a entrare nel suo piccolo ufficio su quella che sembra essere la via principale di Mogok, la capitale delle pietre preziose del Myanmar. Il luogo dove vengono estratti i rubini più grandi e splendenti del pianeta. Verrebbe da fare i simpatici e risponderle: «Da un'astronave, non vedi?». Ma sorge il dubbio che l'ironia non venga colta. E lei non ha colpe, solo paure. Per decenni in Birmania se si era visti parlare con uno straniero si veniva immediatamente interrogati da qualcuno del Ddsi, i servizi segreti, presenza costante e neanche tanto segreta in tutti i luoghi pubblici del Paese. Nonostante la recente apertura agli stranieri, il riflesso condizionato rimane.
Arroccata sulle montagne a 200 chilometri da Mandalay, più di centomila abitanti equamente divisi tra le etnie Shan, Lisu, Palaung e Birmani, Mogok è una città nel limbo. Per oltre 50 anni è stata periodicamente chiusa agli stranieri. Qualche mese fa nelle agenzie di viaggio di Yangon veniva considerata accessibile. Ma come ovunque in Birmania l'apertura è a discrezione del comandante locale del Tatmadow , l'esercito che governa il Paese dal colpo di Stato del 1962. Per cui la notizia potrebbe benissimo non essere arrivata fino a qui, dipende dai giorni e dagli umori dei militari. «Avete il permesso?», chiede la signora in un inglese appena comprensibile. «Nessun permesso. Non ci è stato detto che serviva». «Ma al posto di blocco non vi hanno fermato?». «La sbarra era aperta, non c'era nessuno, il taxi è passato». La signora è perplessa. «Chi siete, che cosa fate qui?». «Siamo turisti, italiani, volevamo vedere la città e le miniere». «Le miniere? Non è permesso, non si possono visitare». Lo sospettavamo. « Wait here, don't go alone ». Aspettate, non andate da soli.
La valli intorno a Mogok, un altipiano a 1200 metri di altitudine, sono punteggiate di miniere. Grandi cave a cielo aperto, profondi buchi nel terreno, accampamenti improvvisati lungo i torrenti. È un Klondike senza oro, ma non per questo meno ricco, anche se non ha nulla di quell'aria da frontiera traballante di altre zone minerarie. Almeno dal VI secolo in questa zona si estraggono pietre preziose di ogni sorta: lapislazzuli, zaffiri e la rara painite. E poi quantità sterminate di rubini. La leggenda vuole che seimila anni fa un serpente depose tre uova: da una nacque il re della Cina, da una il re di Bagan, antica capitale birmana, e dall'ultima le miniere di Mogok. Tutto qui ruota intorno all'estrazione: non ci sarebbe altro motivo per vivere tra queste foreste tropicali malariche, un tempo infestate di tigri e ancora popolate di elefanti. In città ogni stamberga vende gemme, ogni persona, uomo o donna poco importa, indossa vistosi anelli intarsiati di preziosi e pacchiane collane con pendagli lucenti.
Anche la guida trovata dalla signora del taxi indossa la sua bella collana con la pietruzza. Si chiama Lisa, ha 17 anni, parla un inglese senza sbavature, dice di essere figlia di un pastore metodista e non è per nulla convinta di portarci alle miniere. Deve chiedere a suo padre che, a quanto pare, oltre a essere un religioso è anche una specie di promotore turistico, autore di libri di storia, nonché mediatore di preziosi. Mentre aspetta la risposta del padre, e lui «vede cosa si può fare», Lisa ci accompagna a piedi a visitare Mogok. Questo si può fare. Da vedere non c'è molto, ma quel poco è sufficiente per rendersi conto che qui come nel resto della Birmania convivono etnie e religioni diverse. Mentre si sale al monastero buddista sulla collina per godere di una gloriosa vista del lago e delle case di legno, ci imbattiamo in una processione induista tutta petali e petardi. Sono Gurkha nepalesi, arrivati nel periodo dell'impero britannico e rimasti dopo l'indipendenza. Il tempo di una mohinga , spaghetti di riso e pasta di pesce che i birmani mangiano a colazione, e di constatare che l'alta statua di Buddha nel padiglione centrale del tempio è così tempestata di gioielli da far impallidire la corona britannica.
Il padre di Lisa trova un cugino automunito che forse può farci visitare una miniera di rubini. Nazionalizzate negli anni Sessanta, oggi le miniere più grandi e tecnologiche sono gestite da società miste pubblico-private che commercializzano le gemme sul mercato estero. Dopo il tramonto della via birmana al socialismo del generale Ne Win, nel Paese è stato autorizzato un settore privato, ovviamente in mano a parenti e sodali dei vari generali. Neanche a dirlo sono off-limits. Sorvegliate da guardie armate che non mostrano la stessa affabile curiosità per lo straniero degli abitanti della zona. Piuttosto una diffidenza al limite della minaccia, anche per gli amici italiani del cugino di Lisa. Meno male che la società birmana è ancora tradizionale, per cui è ancora viva l'antica usanza chiamata kanase . Ovvero la possibilità per qualunque cittadino di lavare la ghiaia bianca a valle delle miniere in cerca delle gemme sfuggite alle macchine. Qui non ci sono guardie ma solo povera gente armata di martelletti e setacci, che spacca la roccia bianca simile al marmo al cui interno potrebbe esserci il rubino capace di cambiare la vita. Sono seduti a lavorare sotto pesanti teli di plastica. Le chiamano kanase women , perché sono quasi tutte donne. Sorriso spontaneo e capo coperto da un cappello di bambù che sembra un pagoda, picchiettano e setacciano con tanta cura che difficilmente anche la gemma più piccola può sfuggire loro. Le lunghe vesti colorate contrastano con la distesa di ghiaia bianca. Una di loro svuota il contenuto di una scatolina da caramelle nella mano: pietruzze colorate grandi quanto un chicco di riso, nessun rubino.
Per quelli bisogna andare al mercato all'aperto, il Pan Shan, che si tiene ogni pomeriggio in uno spiazzo che pare il parcheggio di un drive in . Sotto ombrelloni colorati che proteggono dal sole si danno appuntamento kanase women , mercanti, affaristi e chi semplicemente vuole essere nel punto più animato di tutta la città. Ai lati, nelle bancarelle si arrostiscono spiedini e si tagliano manghi e meloni. La contrattazione sovverte le regole cui siamo abituati. All'occidentale basta sedersi a un tavolino e a poco a poco i venditori vengono a proporre la propria merce, gettandola sulla plastica blu come fossero fiches sul tavolo da gioco. Offrono pietre grezze: zaffiri, lapislazzuli, qualche gemma rossa che potrebbe essere un rubino, vallo a sapere. I prezzi sono in dollari, la fortuna non si fa in Kyat birmani. L'idea è che non si facciano grandi affari. Serve tempo e capacità di giudizio. «Si va avanti per giorni, comprare un rubino è una cosa seria», spiega il padre di Lisa che nel frattempo ci ha raggiunto. Ma noi non abbiamo giorni, solo ore. Gli occidentali senza permesso non vengono accettati nell'unico hotel della città autorizzato a ospitare stranieri.
Bisogna lasciare la valle di Mogok e tornare a Pyon-Oo-Lwin, la vecchia capitale estiva britannica, lungo la nuova strada che si attorciglia sulle creste delle montagne e domina chilometri e chilometri di foreste. La chiamano pomposamente highway , autostrada. È poco più di una provinciale asfaltata di fresco. La provinciale per la terra dei rubini.
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