Bombe sull’Onu prima della tregua a Gaza

È l’epifania della battaglia, la tempesta prima della quiete, 24 ore di fuoco, morte e sangue destinate a sigillare in un ultimo conato di guerra le trattative condotte tra Il Cairo e Washington per far tacere le armi. S’inizia nel quartiere di Rimal, cuore benestante di Gaza City. Alle prime luci del mattino la guerra bussa alle porte di casa. Le bombe esplodono tra i palazzi, i tank sparano dagli incroci, le forze speciali israeliane passano di muro in muro alla ricerca degli obbiettivi. Fuori è il panico. Frotte di civili terrorizzati abbandonano gli androni fumanti, cercano scampo in strada trascinandosi dietro vecchi e bimbi in pigiama, uomini in sedia a rotelle, malati con flebo e bombole d’ossigeno. Una donna con una bandiera bianca in mano crolla colpita alla testa. Un missile s’abbatte sul «palazzo della Stampa», un edificio di 16 piani utilizzato da agenzie e televisioni internazionali, ferisce due giornalisti. Poi il colpo grosso, quei colpi d’artiglieria che colpiscono la sede delle Nazioni Unite, la trasformano in una pira fumante, fanno indignare il mondo, mandano su tutte le furie lo schivo segretario generale Ban Ki Moon. Là, dentro il palazzone dell’Unwra, l’agenzia per gli aiuti ai palestinesi, sono ammassati 700 sfollati. Ora scappano di nuovo inseguiti dalle fiamme e dalla paura mentre fuoco e vampe divorano tonnellate di aiuti.
Il segretario generale dell’Onu Ban Ki Moon, in Israele per discutere il cessate il fuoco, liquida come «oltraggioso» l’attacco. I militari israeliani impegnati in un ultima offensiva prima del cessate il fuoco si difendono, accusano Hamas di aver sparato dall’edificio, ma John Ging, il direttore dell’Unwra, sorpreso dal bombardamento nel palazzo, definisce «insensate» le giustificazioni. Ban Ki Moon rincara la dose chiedendo l’apertura di un’inchiesta e il ministro della difesa Ehud Barak ammette il «grave errore». Il premier Ehud Olmert si guarda bene, però, dallo smentire i militari. «È assolutamente vero siamo stati attaccati dal palazzo, ma le conseguenze sono molto tristi... me ne scuso personalmente», dichiara il premier.
Mentre a Gaza le 16 vittime della giornata portano a oltre 1040 i morti e le bombe degli F16 fanno a pezzi l’ex ministro Said Siam, uno tre più importanti capi fondamentalisti nella Striscia, anche i missili di Hamas reclamano la loro razione di sangue. Due dei venti ordigni lanciati ieri esplodono nel centro della città israeliana di Beer Sheva, riducono in fin di vita un bimbo di 7 anni, feriscono quattro persone. A Washington e in Egitto si preparano, intanto, gli accordi per far tacere le armi. Quello stilato al Dipartimento di Stato e fortemente voluto da Israele viene definito un «piede nella porta» per costringere la presidenza Barack Obama a collaborare per stroncare il traffico d’armi gestito dall’Iran e destinato ad Hamas. Condoleezza Rice, oggi al suo ultimo giorno lo dovrebbe firmare in zona Cesarini davanti al ministro Tzipi Livni in arrivo da Israele.
L’intesa prevede un esplicito impegno americano, una stretta cooperazione d’intelligence per identificare origine e rotte delle armi tra Iran, Golfo Persico e Sudan, un accordo marittimo con possibile coinvolgimento Nato per bloccare i convogli sospetti, la disponibilità di Europa e Usa a fornire all’Egitto le tecnologie per identificare e distruggere i tunnel. Al Cairo Amos Gilad, l’inviato del ministro della difesa israeliano, avrebbe già anticipato un sì, in linea di principio, al piano per il cessate il fuoco che gli egiziani hanno «fatto accettare» mercoledì alle delegazioni di Hamas.

Il movimento firmerebbe una tregua di un anno rinnovabile in cambio del ritiro israeliano. Per far tacere le armi mancano, insomma, solo gli annunci ufficiali, ma molti soldati israeliani già ci scommettono, quello di stasera sarà il loro primo shabbat di quiete dopo tre settimane di guerra.

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