Bossi sbadiglia: "Tanto non cadiamo"

La giornata alla Camera. Un Senatùr stanco siede accanto al premier. Maroni gioca con foglietti e cellulare

Bossi sbadiglia: "Tanto non cadiamo"

Roma - In un clima ovattato, con Berlusconi che non viene mai interrotto dalle urla dell’opposizione perché l’opposizione non c’è, coi Radicali appollaiati in undicesima fila e Gianfranco Fini oppositore solitario, costretto a tenersi tra i denti le risposte che vorrebbe dare agli interventi che lo prendono di mira, si compie una mattinata di puro surrealismo. Non tutti nella maggioranza ci sono, tanto si vota il giorno dopo, perciò qualche macchia di velluto rosso fa pendant con la distesa del lato sinistro. Il premier arriva a Montecitorio mentre Bossi e Tremonti, nuovamente coppia di ferro, stanno confabulando in cortile da una ventina di minuti. Per non fare il bis (sul rendiconto entrambi erano entrati in ritardo in aula) si affrettano a prendere posto e siedono uno vicino all’altro, con Bossi alla sinistra di Berlusconi. Il premier attacca il suo discorso dopo le comunicazioni di Fini, presidente dimezzato di una Camera a metà.
Il debutto è in fair play: «Mi scuso personalmente per l’incidente parlamentare» per la mancata approvazione del rendiconto dello Stato. Quindi il menù di giornata: «Il governo chiede di avere confermata la fiducia perché profondamente consapevole dei rischi che corre il Paese e perché i tempi imposti dai mercati non sono compatibili con quelli di certe liturgie della politica». Quei sacerdoti della vecchia politica che starebbero tramando, anche tra le fila del Pdl, per un ribaltone tecnico. Ma «è finita l’epoca in cui i governi li faceva una casta di capipartito», se una maggioranza perde la fiducia «la parola deve ritornare agli elettori». Questo sempre - aggiunge diplomaticamente il premier - sotto «l’alta vigilanza arbitrale del presidente della Repubblica, peraltro impeccabile».
Bossi si volta spesso per dire qualcosa a Tremonti. Quando Berlusconi accenna ad un’area del Paese che sta correndo, Bossi sillaba un «Padania» e strizza l’occhio al ministro dell’Economia, ricambiato. In altri momenti, parecchi, il capo della Lega perde la concentrazione e si lascia andare ad una sequenza di sbadigli, non si sa bene se nove o dodici. Tremonti è gelido come sempre, e si fa notare quando se ne va dall’aula senza salutare il Cavaliere. Scena perfetta per raffigurare plasticamente il cattivo rapporto tra i due, anche se poi stanno a quattr’occhi per più di mezz’ora nella Sala del governo, finito il rituale. Il discorso di Berlusconi non entusiasma la Lega che applaude poco e solo in parte. Maroni se ne sta in disparte, armeggiando con foglietti e smart-phone, in una delle prime file insieme a Calderoli e il suo sottosegretario Belsito. Non c’è esattamente entusiasmo nel Carroccio, che prende il microfono tre volte, con la Lussana a nome del gruppo («Sulle riforme servono tempi certi, basta giocare in difesa passiamo all’attacco»), e poi con due interventi a titolo personale di Desiderati e Dal Lago, che ricordano al premier le ragioni del «territorio»...
Ma i più infuocati sono i Responsabili, che osannano la missione del Cavaliere e se la prendono con trasformisti e Fini, presidente imparziale (e lui tamburella nervosamente con la penna...). Si sprecano le citazioni. Vignali, pidiellino area Cl, usa una frase di Churchill: «La sinistra è come Cristoforo Colombo, quando parte sbaglia strada, quando arriva non sa dov’è, ma lo fa sempre coi soldi degli altri». Un altro Pdl, Marinello, cita un fondo del Corriere, Massimo Corsaro, vicecapo dei deputati berlusconiani, prende un passo di Liberazione, mentre il Responsabile D’Anna cita sua madre: «Non c’è fumo più pericoloso per la mente dell’uomo che quello che si sprigiona dall’incenso».


Diversamente dagli altri voti di fiducia stavolta non si percepisce ansia da numero in bilico, si vede che gli addetti al calcolo hanno dato abbondanti rassicurazioni, «e vorrei vedere» aggiunge Berlusconi. «Domani ci sarà ancora il governo» assicura Bossi, il premier «ha detto quello che doveva dire, quello che la gente voleva sentirsi dire». E, per una volta, senza le urla di Rosi Bindi.

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