Bush tiene duro: in Irak nessuna guerra civile

Sostegno da Tony Blair: «Non è lotta di civiltà, ma per la civiltà»

Roberto Fabbri

Continuare a rivolgere domande sulla situazione in Irak e sulle sue prospettive a George W. Bush non dà molte soddisfazioni ai giornalisti. Ieri il presidente degli Stati Uniti ha tenuto una conferenza stampa a sorpresa alla Casa Bianca, ma di sorprese, nonostante ben ventuno domande, non ce ne sono state. L’unica è stata il ritorno alla ribalta di Helen Thomas, celebre “rompiscatole” cui il presidente dà assai malvolentieri la parola onde risparmiarsi di essere vessato sul tema della guerra all’Irak: ma anche la temuta signora non è riuscita a far breccia nel collaudato muro di gomma bushiano. Più fantasioso, almeno nel lessico, l’alleato di ferro Tony Blair: ieri a Londra il premier britannico ha sostenuto che la lotta al terrorismo, in Irak come altrove, «non è uno scontro di civiltà, ma per la civiltà».
Incurante dei deprimenti sondaggi d’opinione sulla sua popolarità, che lo vedono ormai stabilmente sotto il quaranta per cento e in buona parte a causa dell’Irak, Bush è tornato a mostrare il suo volto più ottimista, come già aveva fatto il giorno prima a Cleveland nell’Ohio. C’è una guerra civile in Irak?, gli hanno chiesto i giornalisti. Nessuna guerra civile, ha risposto il presidente, perché i leader politici iracheni sanno quanto è importante la formazione di un governo di unità nazionale, ma è ragionevole prevedere anche per il prossimo futuro «duri combattimenti». La guerra, o come la si vuole chiamare vista la natura di chi la combatte, è entrata nel suo quarto anno: può essere vinta? «Possiamo vincerla e la vinceremo», risponde convinto il Numero Uno. Gli iracheni non stanno per caso cedendo? «Hanno rischiato, a un certo momento, di andare in pezzi, ma non l’hanno fatto e tengono duro».
Risposte sul filo della continuità e dell’ottimismo, tese a contrastare quello strisciante sentimento di disagio che si va impadronendo dell’opinione pubblica americana mese dopo mese nel vedere che la soluzione del nodo iracheno resta lontana, e che semmai un’altra inquietante crisi si avvicina: quella con l’Iran. Su questo argomento, Bush è stato chiarissimo: gli iraniani devono mollare la presa sull’Irak e nei prossimi contatti a Bagdad diremo loro «cosa c’è di giusto e cosa di sbagliato nelle loro pretese»; quanto alla bomba atomica, le Nazioni Unite devono inviare a Teheran «un segnale unito: è inaccettabile» perché con un arsenale nucleare l’Iran «potrebbe ricattare il mondo intero».
Risposte prevedibili e nel solco della continuità anche per quanto riguarda il ritiro dei soldati americani dall’Irak. «Se ci ritirassimo troppo presto - ragiona il presidente - gli islamo-fascisti sarebbero rafforzati» e ne risentirebbe il nostro disegno di diffusione della democrazia nel mondo. Ma non s’immagina un giorno in cui in Irak non ci saranno più i nostri soldati?, incalza una giornalista. «Il ritiro completo sarà una decisione di futuri presidenti e di futuri leader iracheni - risponde Bush -. Non fisso calendari. Decideranno i comandanti sul campo, non i politici a Washington».
Arriva il momento della fastidiosa Thomas, ma neanche lei riesce a far deragliare il presidente dal suo collaudatissimo percorso. «Vuole dirci una buona volta perché ha deciso la guerra all’Irak? Tutte le ragioni che ci aveva presentato sono state smentite dai fatti, significa che aveva già deciso prima?» «No - risuona la voce di Bush come in un disco già molte volte ascoltato - tutto è cambiato l’undici settembre 2001, e se Saddam Hussein avesse accettato le nostre richieste a livello diplomatico la guerra non ci sarebbe stata».
C’è stata, invece, e purtroppo - nella forma vile della guerriglia e del terrorismo - continua. Ieri un gruppo armato composto da diverse decine di persone ha dato l’assalto all’edificio che ospita il tribunale e una prigione in una cittadina a nord di Bagdad, liberando trentatré detenuti per terrorismo dopo aver fatto strage dei poliziotti di guardia. Quanto è accaduto a Moqdadiya ha dimostrato la valida organizzazione militare degli assalitori, che si sono presentati all’alba armati fino ai denti a bordo di numerose auto e pick-up. Sedici poliziotti e almeno nove civili sono morti sotto i lanci di razzi e granate, cui ha fatto seguito un fitto fuoco di sbarramento. Tra gli assalitori si sarebbero contati circa quindici caduti.

Un’ora d’inferno, che non si è concluso con la liberazione dei carcerati: ordigni esplosivi erano stati posti lungo le strade di accesso a Moqdadiya, così quando sono arrivati i soccorsi chiamati dagli assediati ci sono state altre due vittime. L’attacco è stato rivendicato in serata da una sigla collegata ad Al Qaida; nel comunicato, la cui autenticità non è stato possibile accertare, si afferma che i poliziotti uccisi sono addirittura quaranta.

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