Zermatt
L'onda di piena è arrivata intorno alle 18, improvvisa. Densa, scura, grigia di fango e detriti. Un'alluvione inattesa in uno dei giorni più caldi dell'anno, che ha precipitato Zermatt - località turistica fra le più note dell'arco alpino - sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo.
Il 24 luglio scorso le temperature torride che facevano registrare il giorno più caldo di sempre in diverse regioni d'Europa fondevano lo strato esterno del ghiacciaio di Trift, a oltre 3mila metri. La massa d'acqua glaciale intrappolata in un lago sotterraneo si è riversata con la forza di un uragano nel torrente Triftbach, spazzando via ogni cosa nella sua corsa verso valle. Quasi duemila metri di dislivello più in basso ha rotto gli argini, allagando alcune cantine alle porte del villaggio svizzero ai piedi del Cervino. La furia dell'alluvione si è placata solo in paese, dove il torrente confluisce nel fiume Vispa, dal letto ben più ampio.
Con ogni probabilità si tratta di un effetto del surriscaldamento globale, che negli ultimi 150 anni ha innalzato la temperatura media del pianeta di poco meno di 3°C. E che ha iniziato a fare sentire i propri effetti anche ad alta quota. Il cedimento del ghiacciaio è avvenuto lontano dalla curiosità dei media, in una valle laterale dove gli impianti di risalita non hanno ancora piantato le proprie radici d'acciaio. La sindaca di Zermatt, Romy Biner-Hauser, ha parlato di «un capriccio imprevedibile della natura», quasi a voler fugare gli allarmismi. Eppure il fenomeno è preoccupante.
A confermare che il fenomeno è degno d'attenzione, fra gli altri, la professoressa Guglielmina Diolaiuti del Dipartimento di Scienze e Politiche ambientali dell'Università Statale di Milano, da tempo impegnata nello studio dei ghiacciai: «Le alte temperature degli ultimi decenni non solo hanno ridotto superficie e spessore dei nostri ghiacciai - spiega al Giornale - ma hanno anche modificato la circolazione idrica interna, ampliando tunnel e gallerie, generando laghi effimeri e tasche interne dove si accumula temporaneamente l'acqua di fusione e rendendo sempre più frequenti crolli e cedimenti».
E se a valle il cedimento di parte delle pareti glaciali provoca alluvioni improvvise anche senza una sola goccia di pioggia, a monte l'innalzamento dello zero termico impedisce che la neve accumulatasi in inverno possa trasformarsi in ghiaccio perenne, contribuendo alla crescita del ghiacciaio. Certo, il fenomeno del surriscaldamento del clima è planetario: per il professor Francesco Ficetola dell'Università di Milano, esperto delle conseguenze dello scioglimento dei ghiacciai sulla biodiversità, «il clima si sta tropicalizzando, le fasce climatiche si spostano verso nord: per questo anche alle nostre latitudini siamo esposti ad alte pressioni africane e a fenomeni meteorologici altrimenti tipici dei climi sub-tropicali».
Le conseguenze, nella loro drammaticità, saranno spettacolari: «Nel prossimo secolo ci si aspetta che solo in Canada, rimarrà appena un quinto dei ghiacciai attuali: una superficie pari a quella del Portogallo si scioglierà», chiosa Ficetola. Le Alpi, se possibile, sono messe ancora peggio: i ghiacciai alpini sono molto più piccoli rispetto a quelli di altre catene, e più piccola è la cosiddetta «zona di accumulazione», dove si forma il ghiaccio perenne. Si stima che nei prossimi 60 anni si scioglierà quasi tutto il ghiaccio dell'arco alpino: forse sopravviverà qualcosa solo in cima alle montagne più alte, come il Monte Bianco.
Anche gli amanti della roccia, però, potrebbero avere brutte sorprese: l'aumento delle temperature non fonderà solo le grandi lingue glaciali della catena, ma potrebbe sciogliere anche il permafrost che tiene insieme i massi delle più famose montagne di casa nostra. Il profilo inconfondibile della vetta del Cervino potrebbe cambiare per sempre. Fantascienza? Pensare a un crollo generale è sicuramente esagerato, ma è vero che alcune frane minori dovute all'innalzamento dello zero termico sono già avvenute. Tanto che sin dal 2007 sul versante svizzero del Matterhorn (così è chiamata la Gran Becca in terra elvetica) le pareti Nord ed Est sono oggetto di uno studio per monitorare i movimenti della roccia. A giugno 50 sensori sono stati installati a quota 3692 metri, nella speranza di prevedere eventuali smottamenti e frane provocati dal caldo. Non è un caso, infatti, che proprio nell'estate del 2003 - ricordata in Europa come una delle più torride nella storia recente - si registrarono alcune delle frane più importanti.
Mentre la colonnina di mercurio sale, il cosiddetto «strato attivo» del permafrost, che in estate è soggetto a fusione e diventa molle e fluido in superficie, aumenta. E con esso aumentano le frane e i dissesti, con conseguenze anche molto pericolose in presenza di centri abitati.
Come non bastasse, la fusione del permafrost «rilascia gas climalteranti come il metano e può incrementare l'effetto serra - conclude Diolaiuti - Insomma è un aspetto assolutamente non secondario delle nostre montagne da monitorare accuratamente per gli impatti che la sua fusione accelerata può avere».
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