C'è l'impronta di Zampa sull'arte delle Marche

Le mostre di altissimo livello che portò nella sua San Severino ne rispecchiavano passione e rigore

Aveva l'età di mio padre, un mese di meno, 24 febbraio 1921, trentun anni più di me. Eppure lo vedevo, come un ragazzo, a ogni mostra, dalla fine degli anni Settanta, lui illustre germanista, inviato per il Giornale di Montanelli, appena nato e fervido di firme. Fu Giorgio Zampa a propormi come collaboratore al grande giornalista, durante il pranzo a Ro, nella casa dei miei genitori, per la mostra di Fabrizio Clerici a Palazzo dei Diamanti nel 1983, con la spalla di Giorgio Soavi.

Era mio sincero sostenitore, forse dal giorno in cui mi aveva sentito parlare di certi affreschi di scuola marchigiana vicino a Castelraimondo, nella pieve di Gagliole, così vicina alla sua amata San Severino, e nella Madonna delle Macchie, un eremo poeticissimo che avevo visitato nelle mie remote peregrinazioni. Vidi un moto di felicità nei suoi occhi quando pronunciai quei nomi che ci rendevano complici, e che mi facevano entrare in una imprevedibile intimità con i suoi giorni felici, alla scoperta dei luoghi della sua infanzia curiosa e studiosa. Erano per lui mete naturali, nella terra natale; meno per me che sono nato a Ferrara. Ma, proprio per questo, motivo di considerazione da parte sua, per il mio desiderio di conoscenza. Il suo sincero stupore ci rese amici. Le Macchie ci unirono. E, ogni volta, incontrarsi era motivo di giubilo. Amavo la pittura marchigiana, e compulsavo il libro e gli articoli di Giuseppe Vitalini Sacconi sulla Scuola camerinese, fonte di condivise delizie. Eravamo marchigiani insieme, lui di nascita, io di elezione.

Anni dopo mi toccò di essere sindaco della sua città, San Severino Marche, e non so se questo accrebbe o incrinò la nostra amicizia. Io non ero più l'enfant prodige che egli aveva amato, ma uno straniero che era arrivato come un ciclone a casa sua, a comandare, nelle delicate cose dell'arte, che egli coltivava discretamente, per la sua felicità, all'ombra della Fondazione Salimbeni sotto la tutela di Federico Zeri, nel frattempo diventato mio nemico, e proprio per un incidente a una cerimonia di premiazione celebrata a San Severino da Zeri e Zampa, nel lontano 1985. Sicuramente, amico di entrambi, Zampa fu imbarazzato, ma scelse Zeri, suo coetaneo e più antico sodale. Io mi vendicai dello sgarbo, diventando sindaco. Ma l'idillio fra noi, di anni prima, era spezzato.

Zampa aveva portato a San Severino mostre raffinatissime e coltivate, da Fortunato Duranti, pittore visionario di Montefortino, a Giovanna Garzoni, sofisticata miniatrice ascolana. Quella su Duranti fu nel 1984, negli anni delle nostre felici frequentazioni. Zampa aveva chiamato un altro diligente e antico studioso di cose marchigiane, Luigi Dania, a curarla. La mostra fu allestita in Palazzo Franchi Servanzi con i disegni di Duranti e di altri (Mengs, Angelica Kauffmann, Giuseppe Barberi e Felice Giani). Il catalogo fu pubblicato dal Centro studi Salimbeni. Sono passati quasi quarant'anni. Nel 1989 scrissi Davanti all'immagine, un libro di saggi che rovesciava il titolo di un altro libro di Zeri, Dietro all'immagine. Zeri chiese all'allora sindaco di San Severino, Adriano Vissani, di non concedermi il teatro Feronia, nel percorso di una tournée di presentazioni in tutta Italia. La tensione era alta. Un gruppo di amici, guidati dal socialista Natalini, uomo buono e generoso, e dalla combattiva Liana Lippi, propose per l'incontro una scuola, di recente costruzione. Fu un trionfo. Mi chiesero di candidarmi. Divenni sindaco. Così iniziò, nel 1990, nella San Severino di Zampa e del giovane prete seduttore Edoardo Menichelli, che divenne poi vescovo di Ancona e cardinale, la mia durevole carriera politica.

Vidi sempre di meno Giorgio, non mi chiese niente per la sua città che continuava a frequentare per il premio, e poi per le mie mostre su Filippo Bigioli, sugli amatissimi fratelli Jacopo e Lorenzo Salimbeni, su Lorenzo d'Alessandro, su Bernardino di Mariotto. Stava a Milano. Coltivava con intatto amore Rilke, Kafka, Musil e Montale; ma, anche nella letteratura, un destino lo riportava alla sua terra: Dolores Prato, la scrittrice di Treia che deve a lui la editio maior (postuma) del suo capolavoro Giù la piazza non c'è nessuno, da Mondadori, e la pubblicazione de Le ore, dal prezioso editore Scheiwiller. La scrittrice era la parte oscura e rimossa della sua infanzia e adolescenza in provincia, la stessa nelle vicine città sorelle: Treia e San Severino. Poteva dire di sé, duramente, quello che valeva anche per Zampa: «Io non appartenevo a Treja, Treja apparteneva a me; essa non mi aveva chiamata, non gradiva la mia presenza per le sue strade, nelle sue chiese, lo vedevo benissimo e anche questo apparteneva a me». È la stessa estraniazione di Zampa, che aveva un rapporto distante e difficile con la sua città, ben registrato da Alberto Pellegrino nel tentativo di onorarlo, pur sapendolo scostante: «Decisamente divergente rispetto al contesto settempedano, dal locale sentire comune, non è stato mai percepito né considerato parte integrante della comunità. Si spiega così, a mio parere, il fatto che sia in vita come in morte mai gli sia stato dato un pubblico ufficiale riconoscimento, né sia stata adeguatamente sottolineata la sua azione di promozione culturale e turistica di San Severino a livello nazionale e internazionale attraverso il Premio e la Fondazione Salimbeni, i convegni (La scuola pittorica di San Severino e le Marche, 1992; ad esempio), i corsi di aggiornamento in Storia dell'arte per quei tempi decisamente una novità nel nostro territorio dell'Alto maceratese, le mostre anticipatrici di riscoperte artistiche».

Degli anni alti e lontani della nostra frequentazione ricordo la passione e il rigore, morbosamente rispecchiati nella pittura marchigiana elegante e asciutta di Giovanni Boccati, e negli epigrammi implacabili di Montale, ultimo - et pour cause - poeta mandato a memoria, con un canto che ci suona dentro: «Spesso il male di vivere ho incontrato:/ era il rivo strozzato che gorgoglia,/ era l'incartocciarsi della foglia/ riarsa, era il cavallo stramazzato./ Bene non seppi, fuori del prodigio/ che schiude la divina Indifferenza:/ era la statua nella sonnolenza/ del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato».

Zampa è in questi versi aspri e scabri, nella loro precisione, nella loro disperata speranza. Li leggi e lo vedi, con la sua faccia impenetrabile, il suo ghigno difensivo. Poi si apriva, e manifestava, volta a volta, la sua stima, la sua amicizia, il suo amore. Così aveva fatto con me fino al giorno che, con fare insinuante, mi disse (e non era vero, o ci credeva?): «non sei più tu il giovane favoloso, il migliore nella conoscenza e nella scrittura. Ora c'è uno più bravo di te: Daniele Del Giudice». Lo pensava veramente o voleva ferirmi? Io lo intesi come un congedo, quella separazione che poi ci fu, e ci portò a vederci sempre di meno, dopo il tempo delle più intense frequentazioni, tra il 1979 e il 1985, girovagando per mostre sulle corriere che trasferivano i giornalisti e i critici delle pagine della cultura da una sede all'altra, nell'uso dei tempi. La consuetudine si interruppe, e così le dotte conversazioni, lasciando spazio a incontri sporadici tra San Severino e Milano.

Ripensando alle sue parole, così severe, mi vengono in mente, si parva licet componere magnis, le parole di Oderisi da Gubbio, miniatore che avevamo visto insieme nella grande mostra umbra su San Francesco, in una primavera lontana, nel canto XI del Purgatorio: «Oh vana gloria de l'umane posse!/ com'poco verde in su la cima dura,/ se non è giunta da l'etati grosse!/ Credette Cimabue ne la pittura/ tener lo campo, e ora ha Giotto il grido,/ sì che la fama di colui è scura:/ così ha tolto l'uno a l'altro Guido/ la gloria de la lingua; e forse è nato/ chi l'uno e l'altro caccerà del nido./ Non è il mondan romore altro ch'un fiato/ di vento, ch'or vien quinci e or vien quindi,/ e muta nome perché muta lato».

Addio, Giorgio.

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