La lettera con cui il professor Nicola Rossi ha annunciato il suo addio alla Quercia è scritta con parole sobrie e misurate, ma contiene un giudizio che esprime una verità devastante. Quando si legge che «sul terreno riformista la sinistra ha esaurito tutte le energie», appare l'immagine di un deserto. È quello tra le scelte delle forze politiche - direi tutte - che oggi governano e l'innovazione di cui ha bisogno l'Italia. A dire il vero, questa immagine era nitida da molto tempo, dal fallimento della prima stagione ulivista tra il 1996 e il 2001, ed era stata resa ancora più visibile dalla melassa culturale con cui era stato composto il programma dell'Unione. La natura populista e massimalista della Finanziaria prodiana è solo l'ultima conferma. In tutto questo periodo sono risuonate tante volte le campane a morto per un riformismo ridotto ad un puro esercizio di retorica. In questi anni, non è mancato neppure l'allarme di chi vedeva in tante roboanti enunciazioni di liberalismo, senza alcun seguito, solo la maschera di vecchie culture e di vecchie politiche.
Ma il gesto di Nicola Rossi è ugualmente pesante. La ragione è presto detta: segnala la presa d'atto di uno studioso che proprio nell'ultimo decennio aveva creduto, con un grande impegno personale, nella possibilità che la sinistra italiana arrivasse davvero alla fine della sua transizione e avviasse il suo rinnovamento. Segnala quindi la fine di una scommessa. Una scommessa che si è rivelata impossibile proprio per la natura dei Ds, così come è emersa dal 1989 ad oggi. Mai una scelta innovativa nei tempi e nei modi necessari. Mai un atto di rottura né con il tradizionalismo né con l'estremismo sociale. Mai una chiara fuoriuscita da logorati schemi di interpretazione del mondo produttivo. È proprio vero che il post-comunismo ha completamente perso le sue «energie riformiste» che - sembra un paradosso, ma non lo è - si erano sentite di più perfino in alcune fasi della storia del vecchio Pci. Chi oggi ha, nell'Unione, un coraggio politico misurabile con quello di Luciano Lama?
Certamente non lo ha Piero Fassino. La sua risposta a Rossi è straordinaria per la debolezza degli argomenti. Avrebbe potuto cogliere l'occasione, accettare il confronto, riconoscere almeno in parte la verità, esprimere almeno un dubbio, impugnare una critica, avvertire il pericolo dell'ennesimo addio. Invece si è trincerato dietro la banalità, dietro gli «ostacoli» e le «resistenze» con cui «deve fare i conti una politica di riforme». «Ostacoli» e «resistenze» naturalmente senza nomi né cognomi, perché altrimenti dovrebbe cominciare non tanto da Bertinotti e Diliberto, ma da Romano Prodi - che continua instancabile a non vedere una priorità nel dossier pensioni - e da Guglielmo Epifani. Così come generico è quel riferimento ad «una politica di riforme». In quali settori dell'economia e in quali meccanismi del Welfare? Con che scopi? A quali prezzi? Appunto, solo consunta retorica. Ma, soprattutto, Fassino non ha potuto indicare una sola battaglia, dicasi una, data per impedire la vertigine controriformista prodotta dalla vittoria elettorale dell'Unione. Ha perso senza combattere. E ha invocato unità e determinazione di «coloro che credono nel riformismo» fuori tempo massimo e senza averne più i titoli per farlo.
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