Il Cairo, l’instabile metropoli-continente

In vent’anni la popolazione della capitale egiziana è raddoppiata: sobborghi inclusi, oggi conta oltre 25 milioni di persone. Innovazione e tradizione si mescolano, ma non comunicano fra loro

Il Cairo, l’instabile  metropoli-continente

Il Cairo - Nel 1985 vissi per alcuni mesi al Cairo. Da allora non ci sono più tornato fino al mese scorso, quando ho potuto realizzare il mio vecchio sogno grazie alla gentilezza degli organizzatori del premio Grinzane Cavour, che mi hanno invitato a un convegno di scrittori africani a Addis Abeba e non mi hanno rifiutato questa personale deviazione sul viaggio di ritorno. Dopo ventitré anni, di nuovo tre giorni al Cairo. Lo scopo: tornare di persona su alcuni luoghi fondamentali - le Piramidi, Saqqara, il grande Museo - per un libro che sto scrivendo.

Il Cairo è la più grande metropoli dell’Africa e del mondo arabo. Compresi i sobborghi (Giza, Imbaba, Dokki, Mohandesin) conta oggi oltre venticinque milioni di abitanti, più del doppio rispetto all’85. Ma non c’è soltanto questo. Il Cairo è anche la capitale di un universo che si trova di fronte a noi, e che noi - nonostante i milioni di arabi che vivono ormai stabilmente in Europa - guardiamo con sospetto e timore. Ed è capitale non solo economica e politica, ma soprattutto culturale, con le sue molte università tra cui la grande, prestigiosissima università islamica el-Azhar. Nel bene e nel male, tutto ciò che il pensiero islamico produce passa da qui, dove peraltro passa anche moltissimo Occidente.

Quello che segue è il report di quanto, semplicemente, i miei occhi hanno visto durante questo soggiorno, raffrontato con tutto ciò che conobbi e vidi ventitré anni fa, quando il Muro di Berlino era ancora in piedi e in Urss durava l’interregno tra Leonid Breznev e Mikhail Gorbaciov.

Tre giorni sono indubbiamente pochissimi, soprattutto per chi non frequenta palazzi e preferisce andarsene in giro a piedi o in taxi, col rischio di girare a vuoto. Ma sono pur sempre tre giorni di una persona che ha frequentato a lungo questa città, l’ha amata, visitata e rivisitata, studiata e ripensata.

Comincio con l’impressione generale, che è quella di una città attraversata da tensioni sempre più forti e come fatta a pezzi dalla deriva delle sue diverse componenti, sempre più lontane e incomunicanti tra loro.

Prendo una stanza in un piccolo albergo nella parte nord di Zamalek, quartiere situato sulla grande isola formata dal Nilo. I primi passi per la città mi segnalano soprattutto le novità. Molti i locali nuovi e moderni, dotati di zone wireless e sempre pieni di studenti al lavoro con i loro computer, un po’ come gli Starbucks americani e inglesi ma senza bicchieri di plastica.

C’è una grande quantità di schermi al plasma, sistemati un po’ dappertutto: nei grandi magazzini, nei negozi di abbigliamento, nei caffè, nei ristoranti. I magazzini sono stracolmi di prodotti tecnologici, computer e telefonini, ma questa non è una novità rispetto al passato. Ci troviamo infatti in un’area di sfogo del mercato occidentale. Qui, a differenza della maggior parte dell’Africa e del mondo arabo, non ci sono soltanto ricchi e poveri: esiste ancora qualcosa di simile a una classe benestante, in grado di consumare prodotti d’importazione.

Attraverso a piedi un braccio del Nilo e torno sulla terraferma. Adesso mi trovo nel quartiere popolare di Bulaq, dove ventitré anni fa abitai, ospite di un convento francescano della Custodia di Terra Santa. Lascio perdere il tumulto di sentimenti che mi agitano e osservo che, qui, tutto è rimasto come allora: stessi negozietti fatiscenti, stessa gente seduta per strada a far nulla, con l’immancabile pipa ad acqua o il solito bicchiere di tè. A parte i telefoni cellulari, che vedo nelle mani di tutti, anche qui. È peggio che da noi.

Ma sarebbe falso credere che questa gente sia succube dell’invadenza occidentale. Esiste una strategia. Dirigendomi verso il centro, osservo le automobili. Un tempo le automobili di lusso si facevano largo tra miriadi di catorci. Oggi prevale l’automobile di media cilindrata, il lusso si nota meno. Ma i taxi, che sono numerosissimi, sono ancora quelli di un tempo: vecchissimi, malandati. Ogni viaggio è un rischio. Molti sono addobbati come alberi di Natale con scritte del Corano. Anche il Museo Egizio, che torno a visitare, è rimasto lo stesso: stessa biglietteria, stessa disposizione ottocentesca del materiale.

Quando venni qui nell’85 gli uomini indossavano prevalentemente il caffettano, mentre oggi prevalgono calzoni e camicia di cotone. Noto però altri segni che conducono nella direzione contraria. La maggior parte degli uomini, talvolta anche giovani, ha il caratteristico bernoccolo in mezzo alla fronte, quello che si produce a furia di pregare battendo la testa per terra. Più grande è il bernoccolo, maggiore la devozione.

Questo ventitré anni fa si vedeva molto meno. Così come era meno facile incontrare per strada donne velate. Oggi lo sono quasi tutte, anche le ragazzine dall’aria emancipata che camminano tenendosi a braccetto e frequentano i wireless café con i loro computer. Il mio autista, che si definisce laico, sostiene che è in gran parte una finta. Il velo perlopiù è solo una convenzione sociale e, quanto agli uomini, parole sue, il bernoccolo spesso se lo procurano battendo la testa contro il muro per dare a tutti l’impressione di essere uomini devoti.
Nei locali si trasmette molta musica. I videoclip sono realizzati con grande cura, la fotografia è di alta qualità, ma la musica in tutti questi anni sembra tornata indietro. Prevalgono le ballate sentimentali, domina l’enfasi della passione. Al tempo circolava più pop, perfino un po’ di rock.

Chissà se ha ragione il mio autista, che bolla bernoccoli, veli e anche la musica come pura apparenza. Status symbol: sono solo status symbol. Il cellulare è un dazio pagato all’occidente, il velo un dazio pagato ai pregiudizi religiosi locali. Ma la realtà, dice, è completamente diversa. Io non so quale sia questa realtà diversa, se esista o no. Guardando la selva di edifici (stipati di antenne paraboliche) che assedia le Piramidi mi chiedo se la gente che ci vive sia ricca o povera. L’apparenza è di povertà, ma guardando meglio l’impressione cambia. Mi sa che qui intorno ci sono abitazioni degne di servizi su AD.

Grandi alberghi, grandi opere pubbliche hanno abbellito la città, rendendola più funzionale e moderna. Interi nuovi quartieri simili a enclavi sono sorti. Ma anche i simboli religiosi, o meglio i simboli del potere religioso, sono aumentati.

Ecco l’idea che mi porto dietro lasciando questa immensa città di importanza capitale per il destino del mondo. Sotto la coltre di una vita che scorre sempre uguale, secondo una saggezza diversa dalla nostra, è palpabile la tensione sempre più forte fra due mondi, che è anche la tensione tra due sistemi di potere. Ciascuno cerca di usare l’altro a proprio vantaggio. L’enorme indotto turistico suggerisce il patto di non belligeranza, che è utile a tutti.

Ma questo non sarà sempre possibile. Nella tranquilla metropoli, dal bassissimo tasso di delinquenza, si avverte l’instabile equilibrio di questo mondo, il suo ribollire.

Anche se poi, come sempre succede, le esplosioni si verificano altrove.

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