Callaghan, i racconti come carezze (e i pugni in faccia a Hemingway)

«Uno scrittore finisce sempre nei guai quando comincia a riflettere sulla pagina. In questo modo mostra al lettore che il personaggio viene forzato per adeguarsi al pensiero dell’autore». E soltanto tre pagine dopo: «Così mi accorsi che, mentre egli poteva aver pensato alla boxe, addirittura averci fantasticato sopra frequentando vecchi pugili e andando in giro per palestre, io avevo fatto più esercizio, allenandomi con gente che un po’ ci sapeva fare e che non era lì solo per fare un po’ di moto e scherzare».
Diavolo di un Morley, gli hai tirato due bei diretti sul naso, al tuo amico Ernest, in Quell’estate a Parigi (Mondadori 1967, Excelsior 2009). Sì, perché sia per te che per lui scrivere e boxare sono due modi molto simili di essere, di raccontare e di raccontarsi. Ancora: «Ernest era alto e pesante, superava il metro e ottanta, mentre io arrivavo a poco più di un metro e settanta e per di più ero grasso. Per quanto buona la mia tecnica potesse risultare, la mia sola risorsa era quella di evitare il più possibile i suoi colpi». Però, caro Morley, tu avevi 26 anni e lui 30, in quell’estate del ’29 quando faceste più volte a pugni sul serio, senza che i guantoni attutissero la sua aggressività e la tua riflessività. E anche quando ad arbitrare l’incontro fu Francis Scott Fitzgerald, all’American Club, fosti tu a vincere. Aspettando e rispondendo, studiando e colpendo.
Sulla pagina, la musica non cambia. Morley Callaghan (1903-90, nella foto) batte Ernest Hemingway (1899-1961) ai punti, il mediomassimo supera il massimo. La conferma viene dai racconti riuniti in Tre amanti (Bur, pagg. 128, euro 8,40, traduzione di Paolo Falcone). Qui si vede come tu sia maestro nell’osservare, nel penetrare con un solo sguardo le anime: due vecchie amiche che si ritrovano dopo trent’anni, un fidanzato geloso della sua ragazza e il ragazzo che la ragazza ama più di lui, una moglie fedele turbata dalle attenzioni di uno sconosciuto... Ma loro non sono avversari da mettere ko. Sono piccoli esempi di umanità meritevoli di carezze, non di ganci assassini.
Niente eroismo, nei tuoi personaggi e in te, niente slanci eroici a petto in fuori, niente fanfaronate. E niente epica, certo, quella divisa elegantemente indossata da Ernest che tanta sudditanza psicologica determina nei suoi lettori. In uno dei vostri match, quando gli massacrasti (senza volerlo?) la faccia, lui, fedele al suo stile, ti sputò in faccia il proprio sangue. Ci rimanesti male, ma senza protestare per l’affronto. Poi, al solito, lui rivoltò la frittata: «È quello che i toreri fanno quando vengono feriti. È un modo per mostrare disprezzo». E ancora: «Finché Morley riuscirà a spaccarmi la bocca, sarà sempre mio buon amico».
Mai la gente comune di cui parli, caro Morley, potrebbe sputarti in faccia il proprio sangue, perché a sanguinare, sotto i colpi dei malintesi, delle parole non dette, dell’inquietudine e delle riserve mentali con cui tu li «vesti» non sono i loro corpi, bensì i loro spiriti dolenti. E mai per loro suonano la campana della fine o il gong dell’interruzione, visto che nulla di ciò che tu narri ha un inizio e una conclusione: sono frammenti «aperti», attacchi e chiuse «in levare» sospesi nel fluire dell’esistenza. Così è la vita, prima che qualcuno le applichi la «cornice» artificiosa della trama. E del giudizio altrui. Un giorno Ernest, facendosi serio, ti disse: «Se hai successo, è per le ragioni sbagliate. Ti lodano sempre per i tuoi aspetti deteriori. Succede sempre così».

Quelle parole sapevano di rimpianto e di autocritica, mostravano il lato debole di un macho barcollante.
Ma se uno, come te, Morley, è immune dal machismo, può fregarsene del successo e delle sue motivazioni. Gli basta mettersi sul ciglio della vita e dare un’occhiata al primo che passa.

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