Cassate, lupini, lupare: i mafiosi fanno onore alla tavola

Un saggio sui rapporti tra Cosa nostra e cucina. Dal banchetto di benvenuto a Garibaldi alle cene "di lavoro" dei boss

Cassate, lupini, lupare: i mafiosi fanno onore alla tavola

La Mafia è buona, buonissima. È dolce come la cassata o le mele alla cannella; salata come il baccalà alla messinese o la caponata di melanzane e peperoni; appetitosa come le lasagne «cacate» di Modica o i cuori di carciofo agli spinaci. La Mafia rende giustizia alla dieta mediterranea, applicando alla perfezione i suoi rigidi principî morali, non soltanto culinari, fedele alla tradizione che ogni omo de panza sa apprezzare, con il tovagliolo a coprire (in parte) la suddetta panza e con le mani unte. La Mafia miscela abilmente tutti i sapori del buon tempo andato, i sapori dell’Italia rurale, sia di terra sia di mare, quell’Italia ammirata come un oracolo dai più grandi chef del mondo, i quali inseguono, senza mai raggiungerlo, i miracolosi dosaggi e i perfetti punti di cottura delle varie zi’ Teresa e don Carmelo.
Il guaio è che la Mafia, presa da atavica e insaziabile fame, ha inserito fra le sue specialità anche quella di «cucinare il delitto». Il che la rende difficile, anzi impossibile, da digerire. Ti resta sullo stomaco, e anche un po’ sulla coscienza, parlando da cittadino. L’odore del sangue dei crimini commessi a crudo ti nausea, e vorresti digiunare quanto basta per purificarti. Ma non ce la fai: come nella Grande abbuffata di Marco Ferreri, lei, con l’ottusa generosità caratteristica di certi poveri, ti riempie come un otre fino a farti scoppiare le budella e il cuore. Leggendo La mafia a tavola, di Jacques Kermoal e Martine Bartolomei (L’ancora del Mediterraneo, pagg. 160, euro 15) avvertiamo, alternativamente, entrambe le sensazioni: da un lato l’acquolina in bocca provocata dalle sontuose ricette, dall’altro il disgusto per ciò che le medesime ricette hanno «condito». Perché il libro è così concepito: ogni capitolo racconta un fatto, di norma un incontro conviviale guarnito da coppole e lupare (o doppi petti e Kalashnikov); e ogni sottocapitolo che lo correda illustrando i piatti gustati proprio in quell’occasione dai protagonisti.
Si parte dagli albori, anzi dal... risorgimento dell’«onorata società», cioè dal sontuoso banchetto che venne offerto a Giuseppe Garibaldi e alle sue Camicie rosse dalle famiglie mafiose palermitane nel 1862. «Mai, in tutta la storia dell’isola, nemmeno ai tempi dei Fenici, dell’occupazione araba o dei re normanni i cui fasti avevano attraversato indenni il tempo, si era assistito a una tale esaltazione - scrive Kermoal -. Tancredi di Lampedusa, presente alla festa, avrebbe scritto nelle sue memorie che quel festino eguagliava quelli di Cartagine offerti ai capi barbari». Infatti... Infatti accadde che l’Eroe dei Due Mondi, sull’onda dell’entusiasmo popolare, decise che sì, lui e i suoi ragazzi s’erano meritati una settimana di vacanza a base di agghiotta di pesce spada, stufato di gallinelle farcite al tartufo e pignolata. Il tutto annaffiato da vini prelibati come Bazia, Faro, Corvo e Marsala all’uovo per i dolci. «Una settimana! Appena il tempo che bastava a Pallavicini, generale dell’esercito sabaudo, per guidare le truppe che avrebbero sbarrato la strada per Roma», commenta l’autore. Insomma, le tavolate siciliane furono per il Generale l’equivalente degli ozi di Capua per Annibale.
L’ultimo menu fuorilegge della serie si consumò più di un secolo dopo, nel 1972, ed è una vicenda già di per sé omertosa, nel senso che date, nomi e ambientazione sono stati modificati per occultare i colpevoli anche a fin di bene, vale a dire per tutelare un uomo vittima di una sventura matrimoniale. Una madre prepara per i suoi figli assassini, fra l’altro, sardine farcite, beccafichi in casseruola e granita di pesche.
Fra le dieci mense qui servite su piatti d’argento, due spiccano per drammaticità, oltre che per opulenza. Il 12 marzo 1909, don Vito Cascio Ferro interruppe la piacevole seduta con il fido deputato De Michele Ferrantelli. A farne le spese fu Joe Petrosino, il superpoliziotto italiano (era nato in provincia di Salerno nel 1860) naturalizzato statunitense che aveva ora nel mirino i lontani colleghi dei suoi abituali «clienti» della Mano Nera. Fu don Vito in persona, dopo un’abbondante porzione di formaggio di capra, a lasciare per pochi minuti il desco e a eliminare il nemico con un colpo di pistola in volto. Poi tornò tranquillamente a casa del deputato: la cassata stava per essere servita.
Una sera di inizio giugno dell’82, invece, si trovarono a cena nel ristorante più in voga di Siracusa tre uomini: il più giovane, 33 anni, si era messo in luce con un libro intitolato Il potere mafioso. Economia e ideologia, poi c’erano suo padre, 62 anni, appena nominato superprefetto di Palermo dopo i successi ottenuti contro le Brigate Rosse, e il procuratore generale Pajno.

Parlarono molto, e sottovoce, di mafia e in verità non fecero grande onore alle succulente portate (vermicelli al nero di seppia, cernia al forno...). Meno di tre mesi dopo il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa pagò con la propria vita, e con quella giovane moglie Emanuela, il conto del suo attivismo che qualcuno proprio non riusciva a digerire.

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