Liverpool - Perfino Mancini ha perso la sua faccia da monello. Lo sport, il calcio, hanno questa forza: la sacralità di certe atmosfere tocca l’animo, penetra laddove il mondo vorrebbe spingerti a sbraitare, rispolvera quel fanciullino che c’è in tutti noi. L’Inter è tornata sui passi della sua storia. Liverpool è riapparsa nella sua immortalità di città a due facce. Da un lato quel monotematico cromatismo che la rende pesantemente sorpassata, anche se oggi se la gode con quel titolo «capitale europea della cultura 2008» che fa vibrare ogni sua corda, disegna la voglia di non essere solo un ornamento al museo dei Beatles, di non essere solo Abbey Road o John Lennon airport. Dall’altro quel rosso leit motiv della sua vita che significa Reds cioè Liverpool, Anfield Road cioè sacralità, Kop cioè la mitica gradinata che diventa un muro umano quando la passione accompagna la partita. Ieri era gelida l’aria di Liverpool, e probabilmente lo sarà anche stasera. Un regalo del vento di nordovest, l’influsso del mar d’Irlanda. Tutto per una notte da lupi. O da Reds.
Ecco perché anche l’allenatore dell’Inter ha perso la mitica faccia tosta: c’è qualcosa di più in questa notte di Liverpool. Mancini è un uomo che crede al bello dello sport ed anche alla sua essenza più pura. Poi è capace di prendersela con il mondo, di raccontare ai giornalisti stranieri la sua indole presuntuosa o il suo disprezzo per i media. «Da dieci anni non guardo trasmissioni in tv, mi fanno schifo». Se ad Anfield la gente canta «non camminerete mai soli», Mancini replica «quando si vince non si è mai contenti». Due modi di vivere e godere, di essere o non essere. Però stasera... «Però stasera vincere qui, in uno degli stadi più belli che ci siano, sarebbe una cosa particolare: questi successi fanno la storia del calcio e noi abbiamo la qualità per farlo». Ecco il succo. L’Inter torna ad Anfield per far storia, come l’altra volta. Storia sua e storia del pallone. Quell’Inter, guidata da quell’altro megalomane della panchina che si chiamava Helenio Herrera, perse qui e vinse rocambolescamente a San Siro. Fu la via per conquistare la seconda coppa dei Campioni ed una sorta di immortalità. Lo spera anche il tecnico di oggi: «A volte i ricorsi storici portano fortuna».
Mancini e questa Inter forse sono più forti di quella di quaranta anni fa. Devono solo dimostrarlo. E non è poco. Stavolta hanno tutto per non fallire. Ma hanno tutto per tirarsi addosso l’antipatia del resto d’Italia. È storia di ieri e l’altro ieri. È storia di sempre quando una squadra è grande, si tratti di Milan, Juve o chicchessia. «È giusto tifare solo per la propria squadra. Fa parte del gioco. Non credo che quelli dell’Everton tengano per il Liverpool», ha replicato l’allenatore a chi gli ricordava i veleni nostri. Ma oggi comincia davvero l’Inter contro tutti di questa stagione. Una squadra che non può fallire, non può farsi eliminare, non può accettare un’altra rappresentazione da comprimaria.
Giocherà l’Inter migliore, la più credibile soprattutto se Vieira partirà dall’inizio. «Patrick non è al top, ma ci sono altri fattori che valgono: esperienza, un fisico come il suo conta. Ci penserò bene». Tutti intorno a Ibrahimovic, capocannoniere di successo. «Tutti convinti di fare una grande partita. Dopo sette mesi di campionato forse non siamo perfetti.
Ma neppure loro», ha sintetizzato Mancini. L’anno scorso il Liverpool rifilò la grande delusione al Barcellona. E oggi ha solo la Champions per sopravvivere a un diluvio. Per ora l’Inter è solo la nuvola di un ricordo.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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