Chi ha vinto chi ha perso

Per i giornali, che devono interessare i lettori in vacanza, trasformare la guerra nel Libano in un match di calcio è naturale. Per chi invece osserva il conflitto con occhi più disincantati, le cose appaiono leggermente differenti.
Dalla guerra d’immagine Israele esce non solo sconfitto, ma addirittura schiacciato. Il che era prevedibile, dato che è l’unico Paese al mondo che deve sempre scusarsi per le sue vittorie e il suo maggior difetto è quello di esistere. Lo Stato ebraico, che molti vorrebbero emarginare nella società internazionale, così come il singolo ebreo, che è stato emarginato all’interno delle società nazionali, diventa accettabile al massimo come vittima, ma meglio se cadavere. Il guaio, però, tanto per il popolo come per lo Stato, è che Israele non vuole scomparire (o non riesce). Questo irrita i suoi avversari, soprattutto da quando gli ebrei, invece di accettare, come hanno fatto per secoli, supinamente gli attacchi, reagiscono. Il che è la conseguenza diretta dell’unica idea originale del movimento nazionale ebraico, il sionismo, essendo invece tutte le altre idee di importazione europea.
Naturalmente gli hezbollah cantano vittoria. Per un movimento terrorista sopravvivere, infatti, è di per sé un successo. Tentare di riprendere il terreno che è obbligato, a seguito di questa guerra, a cedere allo Stato libanese, forse un po’ meno. Del resto cantare vittoria non è lo stesso che vincere una guerra. La vittoria era stata cantata da Nasser nel 1956 e da Sadat nel 1973. Col risultato per il primo di distruggere il panarabismo e per il secondo di essere obbligato a fare la pace con Israele, avendo compreso di non poterlo vincere.
Falsa è poi la pretesa degli hezbollah di essere la prima forza araba armata a mettere in scacco l’esercito israeliano. Era la stessa pretesa di Arafat dopo la battaglia di Keramé nel 1968, e tutti sappiamo come l’Olp, che doveva salvare l’onore arabo, è finito.
La verità è che egiziani e giordani quando si sono scontrati con Israele hanno combattuto molto meglio, senza bisogno di nascondersi dietro i civili, infliggendo, anche nella guerra-lampo dei «Sei Giorni», perdite molto superiori all’esercito ebraico. Una guerra che si conclude con cento morti da una parte e mille dall’altra, con un Libano gravemente ferito e un Israele intatto nelle sue infrastrutture dopo aver ricevuto 4mila missili, non può dirsi una guerra vinta da chi l’ha provocata.
La dirigenza politica israeliana ha commesso molti errori che pagherà, come si conviene a una democrazia. Ha ottenuto però quello che in quarant’anni nessuno - Onu e forze internazionali europee - prima avevano realizzato: il ripristino della presenza e della sovranità libanese su quella che al tempo di Arafat si chiamava Fatahland, e che si era trasformata, con la connivenza dei Caschi blu, in uno Stato terrorista nello Stato. Questa guerra forse si rivelerà essere stata solo una battaglia. Ma per la Siria e l’Iran la situazione ora è doppiamente rischiosa, sia che rimanga la pace o che si scateni di nuovo la guerra. Il loro esercito «telecomandato» in Libano ha riportato sì una «storica vittoria», ma il fallimento dello scopo dichiarato, la distruzione di Israele, può costare caro a regimi che hanno fatto di quello scopo stesso, davanti alla loro opinione pubblica e a quella del mondo islamico, un dovere ideologico, religioso e storico.

Riaprire le ostilità contro un nemico che ha imparato molte lezioni da questa guerra - e ha la forza di criticarsi - è rischioso. Non farlo però potrebbe risvegliare le opposizioni interne e ammettere il fallimento.
Il tempo, non la propaganda, determinerà chi ha vinto o perso questo sanguinoso match.

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