Confessioni di una traditrice: «Sono un autore invisibile»

Un «fantasma» che dà voce a scrittori famosi infrange la consegna del silenzio

Confessioni di una traditrice: «Sono un autore invisibile»

Quanto tempo ci metti a tradurre un libro? Quante pagine all’ora? Quante parole al minuto? E quanto prendi per ogni libro? Quanto a giornata, a cartella, a pagina, a parola? Quando mi mandi la cronistoria della tua vita nascosta di traduttrice - in prima persona e comprensiva di orari, straordinari, note spese e buste paga? Non sono domande da fare a un traduttore! E a queste domande nessun traduttore dovrebbe rispondere: per riserbo, per pudore, per amor di spezzatura e sprezzo del denaro, per rispetto del segreto professionale e per tutte le ragioni per cui un artigiano, un musicista, un attore non fan vedere a nessuno corde, strumenti, utensili e scontrini accumulati negli angoli del camerino o dell’atelier. Silenzio invece, fino all’uscita in pubblico. E, anche allora, si esca solo dietro una maschera: sotto mentite spoglie, con falso nome, dentro la copertina di un libro altrui. A nessuna delle domande di chi vuole stanarlo (o fargli i conti in tasca) chi traduce può rispondere. Eccettuata l’ultima. Che guarda guarda comprende e supera tutte le altre.
Ma l’occasione del convegno su «L’AutoreInvisibile. Tradurre e esser tradotti» che inaugura domani la Fiera del Libro di Torino - una festa in cui due terzi degli invitati parlano una lingua straniera e, per il divertimento di tutti dovranno farsi accompagnare da un interprete - supera la ferma intenzione di tacere e ingiunge di spezzare l’arcano perché tutti possano comprendere.
Allora: un libro all’anno, a volte due, nelle annate buone anche tre. In media tre/quattro cartelle al giorno: quasi mai di più, ma quasi sempre, tutti i giorni. Le ore? Sempre le più brevi, le piccolissime, le antelucane del risveglio o le notturne delle veglie: quelle che non si misurano più. È un «tempo rubato»: scavato dentro la fine del pomeriggio o la mattina delle domeniche e delle feste comandate, con la soddisfazione di ignorare calendari, evitare cartellini, risparmiarsi cadenze trafelate che - almeno - chi commissiona il lavoro (e, per pagarlo gioca tutto sul risparmio, sui tempi rubati, sulle cifre piccolissime che non si misurano più) non impone mai.
Ma quanto, quanto chiedono tutti sempre: gli addetti ai lavori, per confrontare i trattamenti, dati alla mano, e i non addetti ai lavori per stringere una buona volta un dato tra le mani. Bisogna tradurre, in monete sonanti e in banconote crepitanti. E si traduce mediamente per 10 euro a cartella (tasse e ritenute sui diritti d’autore comprese); 12 nel migliore dei casi, 6 nei peggiori: dipende da facoltà, disponibilità, generosità dell’editore. Non dipende dalle dimensioni, la statura, la grandezza dell’autore. Una casa editrice minuscola, mi è capitato, per il romanzo di un classico tedesco gigantesco - versione più lunga prefazione - sborsò, in tempi di lire, 200mila lire. Ti accorgi appena di prenderli. Non mi sono quasi accorta di lavorarci, mi dicevo, non per convincermi. Sono convinta: l’appuntamento al crepuscolo con Arthur Schnitzler, tutte le mattine di una torrida estate milanese, era un privilegio esclusivo, l’occasione per un esercizio impagabile, allenamento della lingua, ginnastica delle parole, palestra miracolosa di scrittura. Qualcuno si fa pagare per fare jogging? I più pagano per iscriversi a club e centri sportivi.
Si può scegliere però un altro termine di paragone per riportare la prestazione invisibile del traduttore alla sua (dura) evidenza materiale. Con il compenso per la versione di un grosso inedito di Heidegger, eseguita per il maggiore editore italiano di Heidegger, ho comprato gli scaffali della mia libreria. È una libreria bellissima: tutta bianca, estesa su tutta una parete, fino al soffitto. La guardo sempre con un brivido di commozione, perché so su che basi - solide e pericolanti, chiare e presto polverose, salde e appena saldate evanescenti - poggino tradizione e traduzione del sapere.
Ma si può fare - e si fa - un’altra operazione per valutare la misura extraordinaria - e, conti alla mano, inestimabile - di una traduzione che, per un’algebra sublime, per un computabile paradosso matematico, sfugge all’ordinario rapporto attività/prezzo. Dei tempi che ci si sceglie per tradurre si è detto. Dei tempi che l’editore sceglie per fornire il compenso si deve dire che possono dilatarsi fino a sfiorare il limite poetico dell’infinito e dell’eterno. Pagamento alla consegna? Mai successo. A due mesi dal lavoro? Succede di rado. Capita invece che i mesi da far trascorrere siano tre. E non dal giorno in cui si è messa la parola fine sul dattiloscritto. Dall’uscita del libro che - previa impaginazione, correzione delle prime bozze, collazione con le seconde bozze, stampa in tipografia, rilegatura, staffette per la stampa, distribuzione - può rinviare il countdown dei fatidici 90 giorni anche di un anno. Ovvio che quei giorni non si contano più. Ovvio che su quei soldi non si fa conto per pagare l’affitto del mese. Ma volete mettere la sorpresa quando, inaspettato, arriva il gruzzoletto sudato sulle carte del bel tempo che fu? È come ricevere un regalo, una donazione, il lascito di un passato di avita nobiltà.
Così pure è un lusso fare il traduttore e - per amore o per forza - un privilegio: preservato da qualche genio del diritto che ha saputo escogitare tempi e modi per tenere lontano chi traduce da volgari scambi economici. Non risuoni perciò, vi prego, in nessuna delle mie parole la nota della rivendicazione da scioperato o della protesta da operaio sindacalizzato. Tanto più che i costi dell’opera si stimano esattamente come il suo (ap)pagamento: su una scala di non monetizzabili valori. L’investimento più impegnativo va tutto nella ricerca, lo studio, le letture, l’ascolto della lingua e della voce dell’autore: spesa mai preventivabile e aliena a rimborsi preventivi. E poi mi sembrerebbe di tradire un’amicizia forte, violare un’annosa intimità, rinnegare il mio apostolato jüngeriano se, vero Giuda, premeditassi di rivendere l’ultimo volume italiano di Ernst Jünger - al momento ho in cantiere l’undicesimo, un diario - per una manciata di denari (come alla fine, immancabilmente, accade).
Premeditata, a rigore, non può essere neanche la strategia del tradimento: il metodo di traduzione. Le diverse scuole di pensiero - due diversi e contrapposti capiscuola: Umberto Eco e Antoine Berman - lo riconoscono in un modo o nell’altro proditorio. Meglio esser fedeli al senso o alle parole? E in che senso fuorviare? Portare il testo al lettore, renderglielo familiare? O mettere il lettore di fronte all’estraneità dell’autore? Arduo generalizzare: ogni caso è particolare, ogni testo originale. Tradurlo è come imparare a memoria una poesia o ricopiare, trascrivere (e riscrivere) una pagina di prosa. Non è un caso se i trucchi per trasporre un brano, per ricomporne in un nuovo testo linea melodica, risonanze e armonie li sveli un musicista: il Maestro Luciano Berio che impartiva ad Harvard la sua lezione sul «Tradurre la musica» (in Un ricordo al futuro, Einaudi).
Non sarà musica, ma nella lettura forzatamente rallentata cui costringe la traduzione, anche la prosa va risillabata come la poesia. Anzi: «Ratio pedum in oratione est multo quam in versu difficilior», imparava Ernst Jünger da Quintiliano. Valga perciò la ratio dei piedi per accompagnare l’autore come un’ombra. Per stargli vicino si deve tenere il suo passo, sentire il tactus, seguire il ritmo.

Ripercorrere la sua scia guardando bene dove si mettono i piedi. Ricalcarne le tracce senza calpestarle, perché l’«AutoreInvisibile» non deve mai lasciare l’ombra di un segno e l’ombra del traduttore non si deve vedere mai.

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