Abbastanza quarantenni vanno al cinema, tuttora, perché una quota di film italiani sia pensata per loro. In molti hanno dato l’esame di maturità solo per colpa della scuola dell’obbligo, senza avere intenzione di laurearsi e, soprattutto, senza avere cultura. E mai hanno pensato di farsene una. Come la maggior parte della persone.
Adolescenti parecchio tempo dopo il caso Moro, memori tutt’al più del Mundial, 1982, quando l’Italia pareva benestante e omogenea, hanno vissuto al di sopra dei loro mezzi e ora sono inermi e inerti davanti al declino. In Immaturi, Paolo Genovese identifica un gruppo di questi agitati mediocri: abitano a Roma, ma non sono tutti romani d’origine, perché a Roma c’è di tutto; si sono lasciati vivere senza andare oltre i desideri dei giovani invecchiati; ancora se la passano dignitosamente, almeno rispetto alle loro doti. Per spaventarli, basta però un contrattempo: l’annullamento dell’esame di maturità, appunto.
Ricchi di tempo libero, come gli adulti rappresentati nei film, i nostri immaturi si riuniscono dopo un ventennio di separazione per affrontare un’antica angoscia nella stessa formazione di allora. Che si era frantumata per la consueta storia di corna.
Pretesto flebile, ma svolgimento notevole. Immaturi offre qualche trovata credibile. A evitare la noia del «come eravamo illusi» d’origine sessantottarda, c’è la desolata consapevolezza del «che nullità siamo e siamo stati».
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